TESTI DEI REPORTAGES
Ho avuto la fortuna e l'onore di poter scrivere molti dei testi che corredavano i miei reportages fotografici. In particolare, sono stati pubblicati sulle riviste ETHOS, NATURA OGGI, KAMOOSE e OXYGEN.
In questa sezione del sito, troverete molti di essi, che ho anche raccolto e pubblicato in 5 libri per la Jedi Academy Publishing. Auguro a tutti voi una buona lettura

SOMMARIO TESTI
TIGRE DEL BENGALA - LUPO - LINCE EUROPEA - ALCE - LEOPARDO DELLE NEVI
ORSO ANDINO - AQUILA AMERICANA - SCOIATTOLO ROSSO - LONTRA EUROPEA
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TIGRE DEL BENGALA
TESTI DI MAX MONTAINA
Quando un mio collega fotoreporter nella tarda primavera del 1992 mi propose di recarci in India a fotografare le tigri, in tutta franchezza, ero combattuto. Da un lato il grande desiderio di poter incontrare nel suo ambiente naturale questo superbo felino, dall’altro il mio disamore per i viaggi in zone tropicali. Ma ovviamente, come sempre nella mia carriera di fotoreporter, a trionfare è sempre stato l’amore per la natura e per le specie animali, e non le mie personali avversioni climatiche al caldo e all’umidità, che vi assicuro essere notevoli in quei luoghi. Se si cerca la Tigre (Panthera tigris), vi è solo un luogo della terra che può soddisfare le esigenze di qualsiasi fotoreporter o divulgatore naturalista, ovvero, il parco nazionale di Ranthambor, situato nell’India centrale e più precisamente nel Rajasthan. Per cui, una volta fissati i voli, e prenotato il lodge per la permanenza nel parco, non restava che preparare l’atrezzatura e contattare l’ente parco, avvertendo che una troupe fotografica, sarebbe giunta a fine agosto per effettuare un reportage sulle tigri. Assicuro a tutti coloro che volessero intraprenderne il viaggio, che è stata un’esperienza tanto bella quanto pericolosa al tempo stesso. Non dimentichiamoci infatti che dietro al fascino senza paragoni che possiede questa specie, stiamo pur sempre parlando di uno degli animali più potenti e pericolosi che abitano il nostro pianeta. Ma non di meno, una volta giunti al parco, scovarla sarebbe stato tutt’altro che facile, essendo poco numerosa all’interno del parco e soprattutto eslusiva come abitudini, Al nostro arrivo, una volta sistematici in uno splendido (inaspettatamente) lodge, vi era ad attenderci un ranger del parco, il simpaticissimo Taji, che conosceva perfettamente per nostra fortuna, la lingua inglese. Il suo commento d’esordio fu subito lapidario: “Cari amici italiani, temo sarà difficile riuscire a scovarle, ma farò tutto quanto è possibile per accontentarvi.” Non era affatto una sorpresa per noi, ne eravamo pienamente consapevoli, d’altra parte stiamo parlando della “regina” incontrastata delle foreste tropicali asiatiche. Confesso che la mia predilezione sarebbe andata alla specie siberiana (Panthera tigris altaica), la sottospecie più grande tra tutte le tigri, pensate che un maschio adulto può arrivare a pesare 360 kg e a misurare fino a 4 metri di lunghezza ed è diffusa, sebbene a forte rischio d’estinizione nella zona orientale della Russia, ma proprio in conseguenza della grande difficoltà di ottenere i permessi per entrare in quel paese (non dimentichiamoci che stiamo parlando del 1992), la nostra scelta (ed ora ne sono felicissimo) è stata indirizzata verso la specie principale asiatica: la superba Tigre del Bengala! L’euforia dei primi giorni, scemò inesorabilmente, dopo aver girato a vuoto a bordo della Land Rover guidata da Taji, per ben 3 giorni all’affannosa e inutile ricerca della specie. Numerosi avvistamenti di Cervi Sika, scimmie disseminate in ogni dove, intente nelle loro schermaglie di gruppo, Ibis sacri, Aironi bianchi, e altra e variegatissima avifauna asiatica, ma ahimè, della Tigre del Bengala, come viene comunemente denominata, nemmeno l’ombra, nonostante il nostro ranger, battesse le zone a lui molto conosciute, dall’alto della sua decennale permanenza nel parco. Al crepuscolo del quarto giorno della nostra permanenza qui in India, le speranza di incontrare “SHERE KAN” come la avevamo ironicamente ribatezzata, ispirandoci al Libro della Giungla di Kipling, era ridotta a flebile speranza di fotoreporters avvezzi ai miracoli della natura! Ma come mi ripeteva sempre il mio professore di etologia dell’Università degli studi di Parma: “mai disperare, perché, chi ama la natura, prima o poi da essa verrà ampiamente ripagato”. Benedetto professor Mainardi, aveva perfettamente ragione. L’alba del quinto giorno a Ranthambor era destinata a rimanere indelebilmente impressa nella mia memoria, infatti, in seguito all’ennesimo acquazzone caduto dal cielo, le tracce di passaggio sul terreno, ove fossero state presenti, si sarebbero viste e notate con maggior facilità! Detto e fatto, d’improvviso, Taji, sceso dalla jeep, iniziò ad urlare: “LUCKY ITALIANS, LUCKY ITALIANS”. Ed in effetti, aveva perfettamente ragione, avendo scorto le impronte di un grosso esemplare nelle vicinanze di uno specchio d’acqua. Restammo appostati e ben nascosti a bordo della Land Rover per circa 3 ore, quando verso le 13,10 di un pomeriggio afoso e caldo come pochi (tasso d’umidità indescrivibile), il miracolo tanto atteso avvenne: di fronte a me vidi ad una distanza di circa 15 metri la sagoma inconfondibile di uno splendido esemplare femmina, in tutta la sua magnificenza. Ma siccome, la natura non fa mai doni scontati, la grande sopresa, che mi lasciò senza fiato, fu lo scorgere che la zona antistante allo specchio d’acqua, rappresentata da un fitto boschetto, era abitata da un gruppo di oltre 5 esemplari, e per la precisione, una femmina con i suoi cuccioli, oltre ad un’esemplare adulto che poteva essere, una maschio accolto in seno al gruppo familiare. Ora comprendo il significato delle urla di Taji, infatti conoscendo la zona, aveva capito fin da subito, che una famiglia, aveva preso possesso della zona, da pochi giorni, forse spostatisi, in seguito alle pioggie monsoniche dei giorni precedenti. Nel mio splendido lavoro, capita raramente di avere l’animale perfettamente inquadrato e a fuoco della propria fotocamera, e nonostante questo, passarono attimi che parevano interminabili, prima che scattassi la prima foto “storica” alla Tigre del Bengala nel suo habitat naturale. Possente, elegante, addirittura sinuosa nei movimenti, questo concentrato di potenza muscolare dall’aspetto ammaliante, era a poco più di 10 metri dalla “camionetta” su cui eravamo appostati silenziosamente. Fortunatamente il vento soffiava in senso favorevole, per cui le sensibilissime vibrisse del gruppo di tigri, non avevano ancora percepito la nostra presenza. Mentre scattavo ripetutamente immagini a più non posso, la mia mente correva ai giorni precedenti la partenza, in cui avevo raccolto una mole considerevole di informazioni a riguardo della specie; non volevo essere preso alla sprovvista nel caso il destino mi avesse concesso di incontrarla. E’ una cacciatrice astutissima, osserva attentamente il comportamento delle proprie prede, prima di sferrare l’attacco decisivo, e raramente i suoi bersagli scampano a tale macchina predatoria, sebbene l’ambiente in cui si muove, permetta alle prede preferite, quali Cervi sika, piccoli roditori ed altri mammiferi, una discreta facilità di fuga. Ma sono assolutamente risoluto nel voler sfatare la “leggenda” della tigre come mangiatrice di uomini, in quanto, non dimentichiamoci, che questo animale, attacca quando si sente in pericolo, e in totale assenza di cibo, può accadere che avvicinandosi ai centri abitati, possa imbattersi nella presenza umana, ma vi assicuro che nel mondo muoiono più persone per la puntura di un’ape che non per “bocca” di una tigre “assassina”. Oltremodo, questo meraviglioso felino, passa la maggior parte della sua giornata a risposarsi sonnecchiando all’ombra, nel fitto della vegetazione, concedendosi, ove presenti, qualche pausa rinfrescante in qualche specchio d’acqua. Nella mia permanenza al parco, ho avuto modo di osservarne il comportamento per oltre 2 settimane, e posso tranquillamente affermare, che i tanto famigerati comportamenti aggressivi narrati da cinema e stampa da quattro soldi, sono una mera invenzione. Per lo più ho osservato atteggiamenti aggressivi tra cospecifici, ma solo ed esclusivamente in presenza di eventuali tentativi di usurpazione del proprio territorio da parte di un esemplare un po’ troppo invadente. Ma nell’osservare i giochi tra la femmina e i propri cuccioli, ho notato una “tenera” e giocosa madre, pazientemente intenta a sopportare le ripetute intemperanze dei tigrotti. Malauguratamente, la specie è in forte pericolo di estinzione, spesso la diaspora che ha allontanato gli esemplari della stessa specie, le variazioni climatiche, e la pressante antropizzazione da parte dell’uomo, ha ridotto a territori sempre più marginali, i luoghi in cui la specie può vivere serenamente la propria esistenza. Fortunatamente, esistono riserve naturali protette, proprio come Ranthambor, o poche altre disseminate in India, nel tentativo quasi disperato di tutelarne la sopravvivenza. L’uomo distrugge, l’uomo prevarica, l’uomo si sente il padrone incontrastato delle cose presenti su questo pianeta, ma la realtà delle cose è ben diversa, prima o poi la natura presenterà il conto dei soprusi subiti, e sono assolutamente certo che il tributo da pagare sarà devastante per tutta la razza umana. Penso a quei bambini che non hanno mai visto un’animale nel proprio ambiente vitale, come potranno apprezzare ed amare le differenti specie animali, se vengono abituati fin da piccoli ad osservarli dietro a delle sbarre o come “stupide marionette” sotto al tendone di un circo. Ho deciso di dedicare la mia intera esistenza ad amare e proteggere la natura, ma a poco o nulla serviranno i miei sforzi di divulgare le meraviglie del mondo naturale, se i nostri governi parlano di tutela ambientale solo in stupide campagne elettorali a caccia di voti, per poi, una volta raggiunto il potere, dimenticarsene come si fa per una cosa di poco conto. Durante i corsi di fotografia o le mostre che porto in giro per l’Italia, mi viene spesso domandato cosa mi spinga a dedicare tutte le mie energie agli animali, e la mia risposta è sempre la stessa: “VOGLIO CHE LA GIOIA CHE PROVO OGNI VOLTA CHE INCONTRO UNA SPECIE ANIMALE NEL SUO AMBIENTE, POSSA ESSERE PROVATA DA CHI VERRA’ DOPO DI ME, PERCHE’ I DOCUMENTARI ALLA TV SONO BELLI, I REPORTAGES COME QUESTO SONO UTILI E SPERO ISTRUTTIVI, MA SE NON GERMOGLIANO, SONO STERILI PAROLE GETTATE NEL VENTO”. Ogni volta che rivedo nella mia memoria, il primo incontro con la Tigre, rafforzo la mia convinzione che non sono un “pazzo”, e sento nel profondo della mia anima come una forza che mi esorta a proseguire, perché finchè ci sarà amore anche per l’animale più piccolo ed insignificante, allora la terra sarà salva. Il mio viaggio a Ranthambor, mi ha consegnato tra le immagini più significative e appaganti di tutta la mia carriera, la stessa National Geographic Society, le ha volute per pubblicarle sulla collana “ACROSS THE WORLD”, ma credetemi, le ricompense economiche e le gratificazioni professionali sono nulla al confronto delle emozioni che ho provato nell’essere al cospetto della “regina della giungla”. Quando nel 1995 una giuria canadese del più grande ente protezionsitico nord americano, elesse il mio reportage (di cui qui vedete solo alcune immagini) sulla Tigre il più bel servizio fotografico dell’anno, decisi subito di dedicare questa grande soddisfazione professionale a loro, a tutte le tigri sopravvissute. Da parte mia, ho solo avuto la fortuna di trovarmi nel luogo giusto al momento adeguato, e poi, il resto è venuto da sé, frutto del mio grande amore per la natura e non di meno per il mio lavoro di fotoreporter. Grazie Panthera tigris, grazie del dono che hai voluto farmi!
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LUPO
TESTI DI MAX MONTAINA
Camminare in inverno, circondati da una spessa coltre nevosa, è già un impegno fisico notevole, ma se a questo aggiungiamo anche il peso dell’attrezzatura di ripresa (fotocamere, obiettivi, cavalletti, ecc.), con il pericolo sempre in agguato di scivolare sul terreno ghiacciato, l’impegno diventa veramente arduo. E proprio una di queste mattine era destinata a lasciare il segno indelebile nella mia esperienza di studio a diretto contatto con la natura. Dopo aver letteralmente “sfacchinato” per circa tre ore, mentre mi apprestavo a raggiungere la stupenda macchia boscosa del nord della Finlandia, il mio incedere venne bruscamente interrotto da strazianti urla improvvise riecheggianti da lontano, o così almeno mi sembrava. Tesi, nel più assoluto silenzio, le mie orecchie, per carpire e soprattutto decifrare quanto stava per accadere. Non ebbi nemmeno il tempo di darmi eventuali spiegazioni; a poche decine di metri da me scorsi un branco di lupi in procinto di definire la reale scala gerarchica tra esemplari maschi, ossia quell’elemento che all’unanimità era riconosciuto capo assoluto del branco: l’esemplare “alfa”. Le urla strazianti non erano altro che gli ululati dei lupi disseminati nel vasto e rado sottobosco scandinavo. Fu questa la prima volta che vidi casualmente una specie animale sebbene mi fossi recato in quella regione per osservare la Lince; di fronte a tanta abbondanza ed essendo ormai in loco decisi che per questa volta la lince poteva aspettare. Oggigiorno incontrare questo animale è pressochè un fatto occasionale in tutte le zone del Pianeta Terra. Narrare la vita del Lupo, significa entrare in un mondo costellato di falsi miti e di assurde leggende. Io non perderò tempo inutilmente perchè tanto inchiostro è già stato sprecato; mi limiterò ad esemplificare comportamenti e abitudini osservati e studiati sul campo dalla Scandinavia alla Penisola Iberica, lasciando la fantazoologia ad altri. Innanzitutto, parlando del lupo (Canis lupus), non possiamo non rimarcare, per un esemplare cosmopolita, la sua differenza “estetica” e strutturale a seconda delle aree geografiche occupate. Il lupo della zona artica fino al limitare delle calotte nordiche, presenta un manto quasi uniformemente bianco. In America, soprattutto in quella meridionale, il manto può variare dal grigio a una tonalità quasi totalmente nera. Nelle aree Subartiche e nelle grandi foreste di conifere, il nostro animale presenta dimensioni maggiori ed un manto tendenzialmente grigio; alle latitudini temperate le dimensioni sono minori e il colore grigio inizia a mescolarsi con il marrone. Nella parte meridionale dell’emisfero gli esemplari sono di piccola taglia e presentano un manto curiosamente rossastro; il colore degli “abitanti” delle zone desertiche è quello della sabbia in cui vivono. Questa è dunque una specie molto variabile, ciononostante, appartenendo tutti alla specie Canis Lupus, gli esemplari di diversa collocazione geografica, accoppiandosi, generano prole fertile. Per poter meglio comprendere quanto l’uomo debba adoperarsi nell’opera di protezione di questo animale, è bene inquadrare l’attuale consistenza numerica della specie nel nostro continente. Il lupo è sicuramente il predatore più forte d’Europa: è robusto, massiccio, veloce; le zampe sono leggere e dotate di muscoli scattanti. Vista, udito e olfatto sono estremamente sviluppati; riesce a scorgere le sagome anche al buio. Questo particolare è tutt’altro che trascurabile se si considera che la vista riveste una funzione primaria durante la caccia. Distinguere il maschio dalla femmina non è impresa facile, tuttavia esaminando le dimensioni corporee si noterà che la femmina risulta più piccola (e quindi più leggera); il maschio ha infatti cranio e torace più massicci. Quando la femmina veglia sui cuccioli nati verso la fine di maggio (solitamente da 3 a 8), il branco deve cacciare anche per lei poichè cresce il fabbisogno alimentare in relazione alla sopravvivenza stessa della prole, soprattutto se numerosa. Durante l’allattamento la femmina non abbandona mai i cuccioli, ben consapevole di possedere molti nemici naturali pronti ad intervenire alla minima distrazione. Tipico atteggiamento della specie è deviare le attenzioni del predatore dalla prole allontanandosi dalla tana nell’intento di depistarlo, anche a costo della vita stessa. A circa una settimana dalla nascita i lupacchiotti hanno finalmente aperto gli occhi e, a debita distanza la femmina osserva i loro primi vagabondaggi alla scoperta del mondo. Questo atteggiamento di massima all’erta è stato osservato essere direttamente proporzionale alla pressione venatoria o di disturbo provocata dall’uomo nei vari secoli di convivenza con questo impavido animale. In alcuni casi la femmina possiede più di una tana in cui nascondere, in casi di estrema necessità, la prole. Ogni sorta di trappola, la stricnina (contenuta nei bocconi avvelenati), le battute di caccia, sono solo qualche esempio della vera e propria ingiustificata “guerra” che l’uomo nel corso del tempo ha dichiarato al lupo. Fortunatamente, per contro, nel campo scientifico troviamo alcuni personaggi che hanno dedicato parte della loro vita allo studio e alla tutela di questo canide. Sono personaggi ai quali tutti noi dobbiamo molto se ancor oggi possiamo parlare del lupo. Primi nella lista lo studiosi e documentarista spagnolo Felix Rodrigueza de la Fuente e il nostro Luigi Boitani, anch’esso studioso e naturalista, curatore del “Progetto Lupo” con il patrocinio del W.W.F. E’ un animale sociale e tendenzialmente territoriale. Intorno alla coppia maschio-femmina ruota la vita sociale del branco. Ogni gruppo, composto da uno o più esemplari possiede un territorio di dimensioni variabili a seconda della presenza di prede, nel rapporto: poche prede, territorio vasto e viceversa. I territori dei diversi branchi sono confinanti e i confini devono essere difesi dai vari tentativi di intrusione. Per marcare il territorio depongono urine e feci lungo i confini. Non di rado l’ululato contribuisce ad “annunciare” la presa di proprietà di una zona, sebbene la sua fondamentale utilizzazione sia da attribuire alla comunicazione fra i cospecifici dello stesso branco. Nel caso di un contatto diretto fra esemplari di branchi cosiddetti “opposti” per indicare la predominanza, l’esemplare che si sente più forte, alza la coda nel suo territorio. All’interno dei branchi vengono a crearsi veri e propri rapporti sociali regolati da solide e rigide gerarchie. I maschi possiedono una linea gerarchica; le femmine seguono una linea separata. La coppia formata dal maschio e dalla femmina più forte diviene la coppia “principe”. Le posizioni scaturiscono da continue schermaglie fra animali dello stesso sesso; non portano ad alcun danno fisico e seguono quasi sempre questo rituale: i due contendenti si fronteggiano l’un l’altro a code alzate, quindi pongono le stesse in posizione orizzontale, allorchè abbassano le orecchie e sollevano le labbra; finalmente avviene lo scontro. Terminata la tenzone, il vinto scopre il collo ad indicare la sua sottomissione, inibendo il vincitore nell’infierire mortalmente. Così il lupo perdente ( se così lo si può definire), si allontana. Da tutto ciò si può capire quanto netta, benché incruenta sia la distinzione gerarchica. Solo nel caso della “privilegiata” posizione di comando, denominata alfa, può accadere che si sconfini nella violenza e quindi nell’inevitabile spargimento di sangue, per giungere in alcune rare occasioni alla morte. Quando un capobranco verrà sostituito, difficilmente si adatterà a rimanere nel gruppo; si allontanerà divenendo un solitario, un emarginato in tutto e per tutto. A questo punto, per la particolare ecologia che contraddistingue i lupi, in breve tempo morirà. Possiamo tranquillamente affermare che il lupo possiede un’alimentazione alquanto variegata. Questa subisce l’influenza dell’ambiente nel quale vive e si differenzia nei diversi mesi dell’anno solare. Negli ambienti rimasti inalterati, il nostro carnivoro svolge un’ottima azione equilibratrice; contribuisce infatti a mantenere “in salute” la popolazione delle sue prede preferite, gli erbivori. Opera una selezione di tipo qualitativo, predando in prevalenza animali vecchi e malati. La sua adattabilità all’ambiente e alle situazioni più difficili, lo ha spinto a cibarsi, oltre che di erbivori, di un po’di tutto. In definitiva non è da escludere che si nutra di materie vegetali, di piccoli mammiferi, ma soprattutto, è appurato che il lupo abbia iniziato a rastrellare, ovunque si trovi, rifiuti di ogni genere. Peculiare e da rimarcare è l’alimentazione de lupo che vive nelle regioni nordamericane, principalmente in Alaska. Si ciba quasi esclusivamente di Caribù e solo in piccole percentuali di Alci e Scoiattoli. Il lupo è un animale crepuscolare e notturno: durante il giorno ama riposarsi. Con le tenebre scende nelle vallate per procurarsi il cibo, e alle prime luci dell’alba riguadagna le zone di riposo. Gli spostamenti quotidiani possono raggiungere anche i 10 km. Riconosce con grande abilità le tracce di presenza di eventuali prede. Nell’arte del cacciare è molto astuto; per far perdere le loro tracce i branchi che si apprestano alla caccia camminano in fila indiana e ogni animale ricalca le orme di quello che lo ha preceduto, per non rendere riconoscibile il numero degli esemplari in caccia. Il lupo possiede un aspetto apparentemente molto simile a quello del cane domestico di grosse dimensioni. In realtà le differenze esistono all’interno della specie stessa; trovare un lupo identico ad un altro non è facile nemmeno all’interno dello stesso branco: le variazioni d’aspetto possono essere le più svariate. L’evoluzione di questa specie, è, come d’altra parte per lo sciacallo, tutto in atto. Un adulto misura circa 1,60 m di lunghezza, di cui 45 cm occupati dalla coda; l’altezza alla linea del dorso è di circa 85 cm. Gli areali del lupo vanno sempre più restringendosi, sebbene l’ultim’ora della sua permanenza nei biotopi europei, soprattutto antropizzati, sia ancora lontana. Abita le regioni solitarie, tranquille e deserte, specialmente i boschi folti, le pianure asciutte o paludose e le steppe. Nell’Europa centrale si è ormai rifugiato esclusivamente alle alte quote. Quando non è trattenuto dalle cure parentali nei confronti dei cuccioli si avventura, vagando di luogo in luogo, alla scoperta di nuovi territori, per poi tornare eventualmente nelle vecchie zone di caccia. In primavera e in estate vive solitario o a coppie, in autunno si riunisce in famiglie, mentre in inverno, se le dimensioni del territorio lo permettono, si formano gruppi numerosi esemplari. Questa vita errabonda richiede un enorme spreco di energie, un costante ricambio organico e un conseguente elevato consumo di cibo. I danni che il lupo arreca durante la caccia sarebbero sopportabili se questo carnivoro non avesse la brutta abitudine di “sgozzare” per istinto un numero di vittime superiore a quelle che consuma; per queste ragioni viene considerato un vero e proprio flagello, soprattutto nelle regioni della terra in cui è attuata la pastorizia. Sebbene debba essere tenuto in debita considerazione che il 10% degli attacchi agli erbivori selvatici si risolve positivamente per il lupo ( per cui il restante 90% può garantire la sopravvivenza alle altre specie), è da comprendere e ponderare al di sopra delle parti, la colpa da “addossare” al lupo nel contesto dell’equilibrio e della salvaguardia del suo ambiente vitale. Durante un soggiorno in Cecoslovacchia con la nostra equipe abbiamo assistito alla scena di un gruppo di lupi che stava letteralmente “sbranando” un solitario. Queste scene potrebbero indurre il profano a giudicare il lupo in termini forzatamente negativi, per cui è opportuno spiegare che la scintilla che ha scatenato tutto questo è da ricercarsi nelle complesse gerarchie sociali di cui si è parlato. L’uomo è il solo “predatore” con cui il lupo è in conflitto; con gli altri predatori ha un rapporto differenziato: teme l’orso bruno, ignora la lince e spadroneggia nei confronti della volpe. Zoologicamente parlando, la specie Canis lupus, si diversifica in numerose sottospecie. Nel nostro Paese, all’inizio del secolo scorso, il lupo era presente su tutto il territorio nazionale, con la sola esclusione della Sardegna. Nella Pianura Padana, un tempo verde, lussureggiante e ricca di selvaggina, nel momento in cui le armi, sempre più sofisticate, iniziarono a restringere l’areale di questo canide, ebbe inizio il lento declino del lupo stesso. In Sicilia la specie è sopravvissuta fino al 1920 circa. Le cause della sua scomparsa sono da attribuirsi all’improvvisa riduzione ( nella piramide alimentare che vede il lupo al vertice ), di cervi, daini e caprioli. Questa peculiarità ha contribuito a modificare gli atteggiamenti del branco durante la caccia, un tempo svolta con la massima cooperazione e ora attuata da un gruppo assai sgretolato. Un altro grave problema è causato dall’incessante e continuo aumento dell’antropizzazione ai margini degli habitat naturali in cui vive. Nei prossimi anni, opera fondamentale sarà quella di reintrodurre i grossi erbivori, indispensabili al lupo. Un importante fattore da considerare è il randagismo sempre crescente. Da augurarsi è senza dubbio che vi sia un ridimensionamento. Il controllo di questo “penoso” fenomeno risolverebbe anche la sua fierezza di predatore “puro”, in quanto troppo spesso gli vengono ingiustamente imputate stragi di animali d’allevamento, compiute in realtà da cani rinselvatichiti, il cui rapporto numerico con il lupo è di 1 a 100. Questo permetterebbe anche di ridurre il rischio di malattie e l’ibridazione, che porta ad un inevitabile impoverimento e indebolimento genetico della specie. In Italia sopravvive nella catena appenninica dal Parco Nazionale d’Abruzzo alla Calabria ( Pollino), dagli 800 ai 1800 metri di quota. In ogni caso, sebbene le alterazioni dell’ambiente abbiano causato il cambiamento della vita di gruppo, il lupo “italiano” rimane un animale prettamente sociale. Dal 1976, ottenuta la protezione totale del carnivoro sul nostro territorio, è iniziata una grande e pressante opera di conoscenza e di sensibilizzazione atta a debellare i falsi luoghi comuni che hanno sempre perseguitato il lupo. Osservandolo con i propri occhi, ci si rende conto che la sua vita di temuto predatore scorre in maniera alquanto inaspettata; seguire le schermaglie tra maschi, le posture di sottomissione e le dispute di supremazia nei ranghi, offre spunti notevoli, anche all’osservatore più distratto. Questo animale è circondato da un alone di misticismo che lo rende quasi irreale, eppure, se si analizza il tutto con scientifico rigore, appare così come in realtà è: un “cane” che non ha assolutamente accettato, e decisamente a ragione, di assoggettarsi a egoistici voleri dell’uomo!. Milioni di anni sono passati da quando il primo lupo fece la sua apparizione sulla faccia della terra, eppure, sebbene l’uomo abbia sempre interferito, questo animale ha seguito la sua strada, sicuramente molto tortuosa e piena di pericoli, ma che gli hanno garantito di mantenere in vita la sua specie. Quando terminai le mie spedizioni e i miei reportages, rimase nel mio cuore una sensazione di benessere “primordiale”, grazie a tutto il tempo che avevo passato a stretto contatto con il lupo osservando il suo comportamento. Mi sembrava di rivivere epoche perdute, remote; epoche nelle quali l’uomo viveva in totale armonia con le creature che popolavano la terra; epoche nelle quali bastava guardare una madre leccare teneramente un cucciolo, per sentirsi appagati e in pace con se stessi.

LINCE EUROPEA
TESTI DI MAX MONTAINA
Questo magnifico predatore deve molti dei suoi problemi all’ignoranza abissale di certi uomini che nel corso degli anni, temendone la «ferocia» , hanno fatto il possibile per sterminarlo. È uno dei tanti casi di mancanza di sensibilità e competenza da parte dell’uomo, ma il risultato è sempre lo stesso: rischio d’estinzione. Finché l’uomo considererà i luoghi comuni, come unici carismi per la protezione degli animali, gli stessi saranno sull’orlo del baratro. Con questo reportage vorrei contribuire a far luce su alcuni aspetti dimenticati o forse volutamente nascosti, riguardanti questo splendido felino. Innanzitutto, molta carenza di informazioni ha sempre circondato questo animale. In passato infatti, veniva chiamato: «gatto-lupo», «lonza», «lupo-cerviero», per citarne solo alcuni. Fortunatamente nel 1758, per merito del grande naturalista Linneo, la lince ebbe finalmente un genere scientifico ricavato da: “felis cauda abbreviata , apice atra, auriculus apice barbatis, colore rufescente maculata”; ovvero : felino a coda corta, con l’estremità nera, ciuffetti auricolari, colore rossastro maculato. Tutto ciò, mette ancor più in evidenza come l’attenta osservazione, e non una qualsiasi credenza popolare, possano portare ad una migliore conoscenza del soggetto preso in esame. Chissà per quanto ancora uccideremo animali ed estingueremo specie nel nome della superficialità sempre più imperversante. La classificazione della lince porta ancora oggi a notevoli discussioni da parte degli studiosi. Secondo autorevoli opinioni, infatti, una buona parte delle linci del Vecchio e del Nuovo mondo vengono recentemente ricondotte alla lince comune, ovvero: «Lynx lynx», relegando così la lince pardina (penisola iberica), a sottospecie della sopraccitata, e cioè: «Lynx lynx pardina». In ogni caso, il genere ha fatto la sua prima comparsa fra il pliocene e il pleistocene, con l’antenata delle lince attuali: la specie Lynx issidorensis. Prima che l’antagonismo fra l’uomo e questo impavido felino fosse così accentuato, si sa per certo che l’areale antico di distribuzione era compreso in tutta Europa ad eccezioni delle isole Britanniche, del nord della Francia, della Danimarca e di parte della Lapponia. Pensate che i romani la utilizzavano nelle arene, per i loro giochi «crudeli». Nel medioevo divenne poi, oggetto di assurde quanto stupide superstizioni. Temendone le «terribili» gesta, e le «gigantesche» dimensioni, le popolazioni del tempo rimanevano infatti sbigottite quando ne veniva ucciso qualche esemplare. Solo di fronte al felino che giaceva inanimato, si rendevano finalmente conto di quanto non assomigliasse ad un orco, come raffigurato nella mitologia del tempo, e soprattutto di quanto piccola fosse in realtà la sua taglia. A cavallo fra il 1500 e il 1600, l’esasperato uso di lacci, tagliole e soprattutto bocconi avvelenati , porto alla quasi totale scomparsa del felino dall’Europa centrale. Fu comunque in coincidenza dell’aumento delle popolazioni rurali, verificatosi a partire dal 1700, che si ha la maggior diminuzione della lince europea. In seguito si aggiungeranno una sempre maggiore deforestazione, e per rendere ancora più precarie le sorti del carnivoro in questione, conseguentemente alla diffusione delle armi da fuoco, si organizzarono vere e proprie battute di caccia allo scopo di eliminare il pericoloso competitore, con premi anche in denaro, ai migliori «killers». Si arrivò così verso la fine del diciannovesimo secolo, con il numero degli esemplari e degli areali di distribuzione della lince, ridotti in maniera drastica. Fortunatamente, con l’emanazione di leggi e decreti con vincolo di protezione, e con il conseguente adattamento della specie alle foreste trasformate dall’uomo, verso il 1930 in tutta l’Europa occidentale è iniziato un costante e continuo ripopolamento di alcune aree da parte delle linci stesse. A tutt’ oggi il genere Lynx trova la sua diffusione nelle regioni centro-sud dell’emisfero boreale e comprende numerose forme. In particolare, lo studioso Lavandeu ha descritto ben 26 forme diverse di lince. A noi riguarda in maniera specifica il genere Lynx lynx, per cui mi limiterò ad indicare la sottospecie della Lince comune (europea). In primis, la Lince europea ( Lynx Lynx Lynx ), diffusa in tutto il continente con la sola esclusione della Penisola Iberica. Troviamo poi la lince siberiana (Lynx lynx wrangeli) di dimensioni maggiori rispetto alla precedente, con un mantello grigio argentato, diffusa nella Siberia ad est dello Jenisei; la Lince del Caucaso (Lynx lynx orientalis) anch’essa di grosse dimensioni,mantello con macchie ben evidenti, diffusa nel Caucaso,nella parte settentrionale dell’Iran, e in Asia minore. La Lince pardina (Lynx linx pardina) è invece piuttosto piccola e fortemente maculata,ed è diffusa in quasi tutta la Penisola Iberica. Infine la Lince isabellina (Lynx lynx isabellina), di taglia superiore a quella europea, con un manto color crema uniforme in inverno, e ruggine d’estate, vive nel Cachemire, nel Tibet e in Mongolia. Ma vediamo ora di fare una conoscenza più dettagliata di questo fiero e possente felino, che ci delizia la vista grazie alle sue caratteristiche tipicamente «regali». Nell’ambito dei felini questo predatore è da considerarsi di media grandezza. Il colore del suo manto va da grigio giallastro, d’inverno, al rosso cannella, d’estate. Una caratteristica molto curiosa e particolare è che le macchie del mantello variano col variare dell’individuo. È importante rimarcare che gli esemplari più nordici sono quasi privi di maculatura. Al contrario, gli esemplari che abitano, o meglio abitavano l’Europa del sud, possiedono una maculatura ben definita e marcata. Per meglio proteggersi dal freddo e per una deambulazione più facile sulla neve e sul ghiaccio, i piedi della lince sono molto sviluppati e possiedono un fitto rivestimento di peli anche tra i cuscinetti digitali. La parte terminale della coda è nera, come pure lo sono i cuscinetti auricolari, che, pensate, vengono utilizzati come antenne, per meglio localizzare la provenienza dei suoni. Infine gli occhi, i famigerati «occhi di lince», che tanto l’hanno resa famosa in tutto il mondo (purtroppo per lei viste le conseguenze), possiedono l’iride che varia dal giallo al bruno. Escludendo il periodo degli amori, nel quale vive da sola in territorio variabile da 1000 a 2500 ettari, a seconda della selvaggina disponibile, la lince si può considerare un animale territoriale. Nel Nord Europa ad esempio i suoi territori possono raggiungere i 6000 ettari , in Asia addirittura 10000. Con le sue grosse unghie marca sugli alberi il territorio. Gli escrementi all’interno del suddetto vengono ricoperti, al di fuori, rimangono bene in evidenza con lo scopo di indicare i confini. Io stesso, nell’accingermi a realizzare questo servizio fotografico, insieme ai miei compagni di lavoro, mi sono reso conto di quanto sia prudente questo animale. La lince conduce infatti una vita prevalentemente crepuscolare e notturna e solo raramente, e con grande discrezione, esce con la luce del sole. La maggior parte del tempo resta nascosta, spesso a dormire, nel fitto della foresta. Le sue tane possono essere cespugli, grossi alberi cavi o anche piccole grotte, e generalmente i suoi spostamenti sono di pochi chilometri. Solo quando arriva il periodo degli amori, da marzo ai primi di aprile, abbandona il territorio. Sono le femmine che si muovono alla ricerca del compagno, ed è proprio in questo periodo che si può assistere, se si usa la dovuta cautela, a furibonde liti tra maschi. Dopo una gestazione di circa 70 giorni, le femmine danno alla luce da 1 a 4 «linciotti», e questo avviene in genere alla fine di maggio. Quando sono passate circa 3 settimane, i cuccioli finalmente aprono gli occhi, e per quasi 5 mesi la madre provvede all’allattamento, sebbene già dopo 4 settimane iniziano a ricevere cibo solido. Generalmente il maschio non alleva la prole, così i piccoli rimangono per circa 10 mesi, cioè fino alla stagione degli amori successiva, con la madre che ne sarà l’unica tutrice. Spesso però i parti si hanno ogni 2 anni. Se poi si aggiunge l’elevata mortalità infantile, si riescono a capire le difficoltà incontrate dalla specie nel tentativo di aumentare la popolazione. La maturità sessuale viene raggiunta a 33 mesi dai maschi e a 21 dalle femmine, e mediamente la loro esistenza scorre nell’arco di 10/15 anni. L’alimentazione di questo carnivoro è composta di mammiferi, quali caprioli e giovani cervi, uccelli, rettili e anfibi. Così, nell’ambito degli animali che completano la fauna europea, si può tranquillamente affermare che la lince possiede una posizione privilegiata nella catena alimentare. Soprattutto grazie alla sua grandissima agilità, questo «superpredatore» per eccellenza svolge un compito di equilibratore ecologico in quanto mantiene controllata la riproduzione di animali molto prolifici quali lepre e conigli, e al tempo stesso controlla il numero di altri predatori come la volpe, allontanandoli dal proprio territorio, o in alcuni casi arrivando persino ad ucciderli. Per cacciare, la lince utilizza tecniche molto particolari, anche se si sposta alla ricerca della preda, si può tranquillamente affermare che questo carnivoro ama particolarmente tendere imboscate. Una volta localizzata la preda, infatti, si ferma molto frequentemente a scrutare l’orizzonte, e ad ascoltare molto attentamente ogni minimo rumore. In alcuni casi, addirittura, se conosce bene la zona, si apposta nell’area frequentata dalla sua ipotetica preda, sfruttando il suo manto altamente mimetico, che gli permette un fattore sorpresa molto elevato. In effetti, quando la lince ritiene che l’animale sia ad una giusta distanza, scatta improvvisamente con una corsa tanto breve quanto veloce, che termina con un salto di altissima spettacolarità, afferrando la preda con gli artigli per poi finire con un morso che tronca loro la colonna vertebrale. Purtroppo, però, la sua posizione non basta a garantirle né cibo sicuro, né tanto meno certezza di sopravvivenza. Quindi, come abbiamo visto il numero delle linci europee stenta a crescere per le cause summenzionate. Per questo, negli ultimi decenni, alcuni uomini si stanno prodigando per tentare di far decollare il numero delle linci in tutta l’Europa. Soprattutto nel nord si stanno operando tentativi di reintroduzione, e di ampliamento di territori da adibire a zone protette e riserve. Per questi scopi sembrerebbe adeguato utilizzare linci nate negli zoo, per evitare prelievi direttamente dalle popolazioni selvatiche. Fino ad ora però, si è preferito utilizzare esemplari catturati nei monti della Slovacchia, successivamente vaccinati e osservati, tenendoli in quarantena presso lo zoo di Ostrava. La cosa più importante è far si che gli animali non escano dalla zona scelta per la reintroduzione, per evitare il rischio di migrazioni in zone di territorio non protetto. Per questo motivo gli esemplari prescelti vengono liberati al centro del territorio, in alcuni casi addirittura dopo averli ambientati per un breve periodo, tenendoli in un ampio recinto appositamente costruito. Purtroppo anche se la tecnologia sempre in miglioramento ci offre radiocollari molto sofisticati e precisi, bisogna attendere da 5, e in alcuni casi anche 20 anni, per poter effettuare stime precise e valutarne i risultati. Negli ultimi anni sono state effettuate le seguenti reintroduzioni: nelle foreste della Slovenia (Jugoslavia), 3 coppie, il 3 marzo 1973, con ottimi risultati; nel Parco Nazionale della Baviera (RFT), 2 coppie, fine anni ‘60, attualmente 20 esemplari, più i cuccioli di ogni parto a buon fine; nella Riserva Naturale di Creux du Van (Svizzera) 5 coppie, fra il 1974 e il 1976, con buoni risultati; nei Vosgi alsaziani (Francia), una coppia, nel 1983, che purtroppo non ha avuto buon esito poiché dopo alcuni mesi il maschio è stato trovato ucciso, ed infine nel Parco Nazionale del Gran Paradiso (Italia), 2 maschi nel 1975, ma anche qui come in Francia il bracconaggio e l’insensibilità hanno trionfato, poiché uno è stato ucciso, il secondo, nonostante il radiocollare, ha fatto perdere ogni traccia di se, lasciando intuire un fallimento completo. Come abbiamo visto, dunque, la situazione non è delle migliori, e oltretutto sembra che un alone di malvagità circondi questo splendido carnivoro, che in fin dei conti non chiede altro , e a buon diritto, che di essere lasciato in pace a vivere la sua già di per sé tormentata esistenza, su un pianeta che a quanto pare non lo ama abbastanza.

ALCE
TESTI DI MAX MONTAINA
Scrivere e narrare di questo animale rappresenta per me qualcosa di assolutamente speciale e soprattutto emozionante. L’Alce è l’animale che da sempre ha rappresentato nel mio inconscio, il desiderio di libertà, di viaggiare , di conoscere e di studiare la fauna del mondo, ma soprattutto il Grande Nord. Elusivo, solitario e schivo, è a tutti gli effetti l’incarnazione di ciò che io reputo il mio animale ideale. Non tanto per il suo aspetto maestoso ed imponente, ma fondamentalmente perché il suo habitat naturale risiede nei luoghi della terra che io amo con tutto me stesso: NORD AMERICA e SCANDINAVIA. Ho passato molti anni a organizzare numerosissime spedizioni di studio e fotografiche nei parchi di queste zone della terra, ricche peraltro di ogni tipo di fauna, ma ad ogni mio ritorno nella mia città, riesco sempre a trovare un motivo per dover organizzare una successiva spedizione . Luoghi come Yellowstone (USA), Jasper e Banff (Canada), Denali (Alaska), Ovre Pasvik (Norvegia), Tofsingdalen (Svezia), Voronez (Russia) e Oulanka e Pallas-Ounastunturi (Finlandia), sono le mete favorite per poter incontrare e quindi ritrarre il mio “totem”, come io stesso definisco l’Alce (Alces alces). La differenziazione maggiore a livello zoogeografico è rappresentata dalle dimensioni differenti dell’esemplare europeo rispetto a quello nordamericano (più grande), tanto è vero che è stata necessaria una classificazione zoologica differente, considerando a tutti gli effetti la specie americana, una sottospecie di quella europea, differenziando appunto l’europeo in Alces alces, mentre quello americano in Alces alces gigas. Dove gigas s’intenda dal latino riferito alle grandi dimensioni che può raggiungere la specie americana, che può arrivare ad oltre 220 cm al garrese. Vi assicuro che trovarselo dinnanzi, procura un’emozione indescrivibile, è in assoluto uno dei mammiferi terrestri più imponenti e grandi che esistano, e se per caso, l’esemplare è un maschio adulto, dotato dei suoi meravigliosi ed enormi palchi (volgarmente ed erroneamente definite corna), vi sembrerà di avere di fronte un “TIR” della natura. Gli indiani d’america lo chiamavano kamoose, da cui deriva il nome dell’animale in lingua anglosassone: moose appunto. Le leggende sul conto di questo stupefacente cervide si sono sprecate, ma qui voglio ricordare quella che io ritengo essere la più affascinante ed evocativa. Si narra infatti che nel gergo dei nativi americani, il nome kamoose derivasse proprio da alcuni gerghi di alcune tribù, che lo consideravano uno spirito invisibile e del quale potessero vedere soltanto la gigantesca ombra, talmente grande da oscurare dal sole un’intera montagna. Ma venendo alle cose più strettamente etologiche, una delle peculiarità di questa specie è il curioso approccio con le altre specie che ne condividono l’habitat, come orsi, lupi, wapiti (erroneamente definiti alci in numerosi documentari naturalistici), coyote, caribù, renne e bisonti. Difficilmente diviene preda di qualcuno dei predatori succitati, troppo grande per un orso, troppo forte per lupi e coyote, mentre con i consimili ungulati wapiti, bisonti, renne e caribù convive pacificamente senza mai occuparne l’areale in quanto abitante solitario e schivo della taiga nordica. Raggiunge le zone lacustri solo alle primissime luci dell’alba o nelle ore più buie del crepuscolo per cibarsi di alghe sul fondo degli specchi d’acqua in tutta tranquillità. Resta la maggior parte della sua giornata, nascosto nel folto delle foreste di conifere tranquillamente accovacciato a ruminare i vegetali di cui si è nutrito nelle sue sortite alimentari. Non ha praticamente nemici, ed una volta tanto, nemmeno l’uomo lo si può considerare potenziale predatore, in quanto la maggior presenza della specie è suddivisa sul globo nelle aree protette, per cui inaccessibili alla pressione venatoria. Sono rari gli esempi di bracconaggio perpetrati a suo danno, e ove accaduti, solo per scopi futili, in quanto alcuni sconsiderati idioti, considerano appagante poter mettere in bella mostra una testa d’alce, sopra il camino della propria casa. Unico vero e grande nemico dell’Alce è l’inverno, in quanto, sebbene munito di un vello altamente protettivo alle intemperie, i rigori dell’inverno nordico, sono assolutamente insostenibili anche per un colosso come lui. La decimazione della specie avviene sempre tra dicembre e febbraio, ovvero nei mesi in cui l’unico nutrimento possibile per la specie, sono i rami rinsecchiti, sotto la coltre gelata. Ma d’altra parte, tutto ciò fa parte dell’inesorabile gioco della selezione naturale, atta a preservare gli esemplari più forti, che potranno trasmettere alle nuove generazioni caratteristiche sempre più adattate all’ambiente in cui dovranno compiere il ciclo della loro esistenza. Non a caso le lotte tra maschi nel periodo degli amori in autunno, una delle cose più belle e affascinanti a cui un naturalista possa assistere, sono cruente all’inverosimile. Immaginate i gladiatori dell’antica Roma, muniti di armi che le sferzano con violenza l’un contro l’altro, cosi le Alci, con i loro enormi palchi, sferzano colpi violentissimi e spesso inesorabili al loro contendente amoroso, mentre le femmine se ne stanno in disparte attendendo l’esito della tenzone, assolutamente certe, che il vincitore, trasmetterà alla loro prole, caratteristiche assolutamente adatte alla sopravvivenza nel regno incantato e spietato del Nord. Assistere al duello tra due maschi, è qualcosa che ti gela il sangue ma al contempo di carica di quell’adrenalina necessaria a non sentire, dopo ore e ore di appostamento i rigori del freddo pungente. Il tempo sembra volarsene via, come in un sogno dolcissimo e pieno di situazioni appaganti. Ogni sacrificio fatto, ogni pericolo corso, ogni cosa negativa accaduta, perde di significato, lasciando il posto a quella sorta di soddisfazione interiore, per la quale nessuna parola inventata dall’uomo può rendere giustizia. Non avrei potuto essere me stesso se non avessi fatto il fotoreporter, o per dirla in gergo moderno, parafrasando una famosissima pubblicità: “toglietemi tutto ma non le mie Alci”. Sono in grado di muoversi agevolmente anche su terreni totalmente innevati e scoscesi, io stesso ho potuto osservare tracce sul terreno lasciate dal passaggio, in luoghi che all’apparenza sembrano totalmente inospitali. Sapere che in epoche nemmeno tanto passate l’Alce era presente anche nell’Europa centrale, mi fa percepire quanto diversa e lussureggiante potesse essere anche la nostra Italia. Ma il progressivo disboscamento e la caccia sfrenata ai suoi danni, ne hanno repentinamente ristretto l’areale di presenza, fino a totale scomparsa avvenuta verso la fine del 19° secolo. Quando l’inverno raggiunge l’apice della sua inclemenza, l’Alce diviene in tutto e per tutto il padrone incontrastato del Nord. Grazie ad un ampio strato di grasso ed a un vello molto spesso, non teme assolutamente i rigori del freddo, sempre che, beninteso, riesca a reintegrare le proteine necessarie al sostentamento vitale. Da una prima osservazione sommaria, appare un colosso impacciato nei movimenti, mentre, ad un’attenta analisi, viene osservata la grande agilità nei movimenti, dovuti alle zampe molto sottili, sostenute da una muscolatura molto potente, che gli permettono di superare anche gli ostacoli all’apparenza insormontabili. Nel periodo tra dicembre e febbraio risulta assai difficoltoso riconoscere i maschi dalle femmine, in quanto proprio in questo lasso di tempo, agli esemplari di sesso maschile cadono le corna per poi ricrescere con velocità sorprendente da marzo a settembre. Nel parco nazionale di Denali, in Alaska, ho avuto l’occasione di scorgere il rossore sotto il vello dei palchi, mettendo in evidenza che appunto non siano corna prive di tessuto, ma bensì irrorate da vasi sanguigni, che con lo sfregamento o durante le lotte lascia intravedere immagini dall’impatto fortissimo, addirittura quasi “sanguinolente”. Le ramificazione definite a “palmatura” viene raggiunta col sopravanzare dell’età, in quanto un giovane alce, presenterà solo piccoli tronconi. Le dimensioni dei palchi rappresentano la caratteristica morfologica essenziale della specie, in quanto lo differenziano da tutte le altre specie della famiglia dei cervidi. D’altra parte non sono certo io a scoprirlo, l’Alce, da sempre rappresenta da tempo immemore, la maestosità e l’imponenza, e non a caso, è un animale poco conosciuto nel reale, ma molto mitizzato nell’immaginario collettivo e soprattutto nei miti e nelle leggende dei popoli che ne hanno condiviso l’appartenenza geografica. Ricordo come fosse oggi, che durante la mia infanzia, passavo ore e ore davanti ai documentari naturalistici che trasmettevano in televisione, e rimanevo alquanto stupito, quando mostrando nelle immagini il Cervo Wapiti (Cervus americanus), molto differente all’Alce, veniva appunto denominato Alce, ancora oggi, nei documentati attuali, permane questo grave errore, dovuto all’errata traduzione dall’inglese con cui viene appunto chiamato il Wapiti (ELK, tradotto appunto in ALCE), e questo è un ennesimo esempio della poca conoscenza scientifica nei riguardi della specie Alces. Forse è stato anche questo uno dei motivi che mi ha spinto a studiarlo per tutti questi anni, cogliendo sfumature e situazioni che di volta in volta me ne facevano sempre più “innamorare” scientificamente. Per cui dopo oltre 15 anni di appostamenti, viaggi, ricerche, spedizioni alla ricerca dell’Alce, ho raccolto il materiale sufficiente per la creazione di un libro (di prossima pubblicazione) per svelare e raccontare tutto al suo riguardo. Non dimentichiamoci infatti che questo animale rappresenta il più grande animale vivente allo stato selvatico dell’Europa e del Nord America. E in tutta franchezza. Dopo aver girato il mondo naturale in lungo e in largo, senza tema di smentita, posso affermare che raramente ho incontrato traccia di presenza umana massiccia nei luoghi in cui mi sono recato per studiarlo e ritrarlo. A testimonianza del fatto, che predilige i luoghi selvaggi e possibilmente inaccessibili alla civiltà. Sicuramente è questo il motivo principale per cui poco lo si conosce. Una peculiarità della specie è rappresentata dal fatto che a differenza delle altre femmine dei Cervidi, le femmine non si riuniscono in branchi con relativa prole, ma al contrario preferiscono muoversi solitarie con i propri cuccioli (1 o 2 al massimo ) dell’anno precedente. L’incontro ravvicinato con esemplari femmine, iperprotettive nei confronti dei loro piccoli, cela in sé qualcosa di tremendamente accattivante, lo sguardo attento, la vicinanza stretta con cui proteggono il pargoletto, lascia incantati. Non dimenticherò mai l’incontro avuto nel parco nazionale di Tiveden in Svezia, quando m’imbattei in una femmina che scrutava l’orizzonte, come farebbe una vedetta militare in avanscoperta a tutela del proprio battaglione, era percepibile, che da un momento all’altro, dagli atteggiamenti prudenti e schivi della femmina, sarebbe poi apparso dal folto della vegetazione, un piccolo alce. Credetemi, è una scena che non dimenticherò mai, e che mi ha ancor più convinto che la tenerezza e la dolcezza non sono soltanto peculiarità umane, nonostante io sia un Darwinista convinto, per cui in tutto e per tutto un’evoluzionista, scevro da “romanticismi” antropomorfici, ma lasciatemi la convinzione, che tutte le maraviglie del creato non siano solamente il frutto del caso e della selezione naturale. Durante le lezioni che tengo annualmente ai miei corsi di fotografia, molti allievi mi chiedono, quale sia il mio animale preferito, e soprattutto una volta ricevuta la risposta, ovvero l’ALCE, come mai lo abbia eletto a mia icona della natura. E’ presto detto: amo i luoghi poco affollati, non sopporto il caos, amo le cose semplici e mi accontento delle piccole cose quotidiane, e sono convinto, che tra le numerosissime specie che ho avuto modo di incontrare nei miei viaggi, l’Alce, abbia una sorta di identificazione con il sottoscritto, è schivo, non ama l’affollamento, ed ogni gesto che compie è sempre spinto da una sorta di cautela, che ai miei occhi appare come “rispettoso” nei confronti del mondo che lo circonda. A tal punto, che soprattutto negli anni passati, si è tentato, soprattutto in Scandinavia di utilizzarlo come animale da traino nell’agricoltura, ma nonostante si fosse lasciato assoggettare per tali scopi, nessuno mai è riuscito a renderlo in tutto e per tutto un’animale domestico. Lo spirito selvaggio che lo contraddistingue dal tempo dei tempi è geneticamente instillato nella specie, nessuno mai potrà e soprattutto mai dovrà, tentare di privare il nostro cervide, dei suoi grandi spazi, fatti di immense distese di betulle, di abeti bianchi e pini di Svezia, di specchi lacustri da condividere con i Castori e le Lontre, delle cime innevate delle Montagne Rocciose nordamericane, cosi come le vaste distese della taiga lappone. L’alce è il simbolo perfetto della natura selvaggia, e che dovrebbe spingere ognuno di noi a riflettere di quali obbrobri stia “combinando” la specie homo sapiens nei confronti della natura, dimenticandosi forse che tutto quanto noi arrechiamo di danno al pianeta terra, prima o poi, la terra stessa ce lo restituirà con gli interessi, con una sola, MACROSCOPICA differenza: la terra soppravviverà, mentre la nostra specie, rischierà inesorabilmente l’ESTINZIONE!!!! Lungi da me, in quanto ottimista per antonomasia, di esprimere opinioni catastrofistiche, ma sarebbe anche giunto il momento, a mio modesto avviso, che le coscienze dei popoli si soffermassero a riflettere sul fatto che la natura e le creature viventi in esse inserite (gli animali), non sono una passione per qualche pazzo che si carica di attrezzature fotografiche sulle spalle, o scienziati che dedicano anima e corpo al loro studio e alla loro tutela, ma un bene prezioso per tutta l’umanità, soprattutto, perché la terra non è nostra, ma non dimentichiamocelo mai: “l’abbiamo in prestito dai nostri figli.” Ho passato ore e ore, accovacciato a temperature sotto lo zero, con la neve che scendeva copiosa a raffreddare l’atmosfera circostante, nella vana attesa di scorgere l’inconfondibile muso delle Alci, ho lasciato il mio giaciglio nelle ore che precedono l’alba, o sono rimasto fino al sopraggiungere del crepuscolo, trasportando obiettivi ingombranti e pesanti, necessari per la buona resa fotografica, ma ogni qualvolta i miei sforzi sono stati ripagati, anche solo da un semplice avvistamento, ogni sforzo compiuto è svanito all’improvviso, lasciando il posto ad un’enorme e profondo senso di gioia e appagamento interiore. Probabilmente, molti di voi che stanno leggendo questo servizio, non hanno mai visto un Alce, ma credetemi, se vi dovesse capitare un giorno di incontrarlo in qualche landa selvaggia del nord del mondo, allora, in quel momento le parole da me scritte, che potrebbero ora apparirvi esagerate o addirittura senza senso, prenderebbero improvvisamente tutto un altro significato e prospettiva ai vostri occhi. Grazie Alces alces, grazie di esistere e di tutto ciò che mi hai donato, ma soprattutto grazie per avermi insegnato a rispettare la vita come il bene più prezioso che esista, perché senza di questo sarebbe come non vivere!

LEOPARDO DELLE NEVI
TESTI DI MAX MONTAINA
Nel mio immaginario naturale, amante come sono delle montagne e dei picchi innevati, un luogo che ha sempre suscitato in me un grande fascino è il Tibet, ma a differenza di molti appassionati delle civiltà locali, per non parlare dell’ascendente creato in molte persone dall’ascetismo dei monaci buddisti, per quanto mi riguarda, da inguaribile innamorato della natura, ho sempre immaginato un mio viaggio in Tibet, atto alla ricerca di qualcosa di speciale, e non poteva che essere diversamente, quando organizzammo questa indimenticabile spedizione nell’Asia centrale alla ricerca di un “fantasma” vero e proprio, e mi riferisco proprio all’inafferrabile e soprattutto “inavvistabile” Leopardo delle Nevi (Uncia uncia). Più che una spedizione scientifica e fotografica, una vera follia, partorita dalla voglia di misurarsi con se stessi di tre fotoreporters, di cui chi vi scrive ne costituisce un terzo. Ma le follie, quando rappresentano un vero e proprio atto d’amore, non precludono alcun tentativo, nonostante, sulla terra, siano ben pochi coloro che hanno avuto il grande privilegio di poterlo ritrarre nel suo inospitale habitat. Non dimentichiamo infatti che questa specie vive a notevoli altezze, e spesso per raggiungere queste quote elevate, si incontrano condizioni climatiche quasi glaciali, arrivando addirittura ai 3200/3500 metri di altitudine. Essendo tipicamente un animale di montagna, scende verso il basso in inverno, tendendo a salire a quote elevate d’estate, anche per la maggior possibilità di approvvigionarsi il nutrimento necessario alla sopravvivenza. Ma con una sostanziale differenza: lui è perfettamente adattato a resistere alle intemperie, grazie al fitto mantello che gli permette una termoregolazione ideale e soprattutto quel necessario isolamento dagli sbalzi dei temperatura, mentre noi “poveri” fotoreporters, dobbiamo necessariamente attingere agli abbigliamenti più costosi e ingombranti che esistano, creando non poche difficoltà sia nei movimenti, che nell’utilizzo delle attrezzature fotografiche. Ma inutile mentire, è proprio in tutte queste apparenti avversità che risiede il grande fascino di questo mestiere: più grande la fatica, più arduo il compito e maggiore sarà la soddisfazione in caso di successo della “MISSIONE IRBIS” come abbiamo nominato attingendo all’altro appellativo con cui viene denominato il nostro Leopardo delle nevi. Cosa fondamentale una volta arrivati in loco, trovare testimonianze da parte delle popolazioni locali, di qualsiasi avvistamento effettuato nel corso degli ultimi mesi, ma la conoscenza dell’inglese da queste parti è del tutto inesistente, ed ovviamente non conoscendo nessuno di noi tre il tibetano, dobbiamo necessariamente fare appello alla tanto famigerata “gestualità” italica. Fortunatamente, non siamo i primi a chiedere informazioni sulla specie, per cui, dopo lunghe incomprensioni e facili entusiasmi, subito sopiti, verso il quinto giorno di permanenza, un soldato di stanza ad una guarnigione “simil doganale”, ci ha raccontato di alcuni avvistamenti avvenuti da parte di pastori. Una volta tanto, abbiamo a che fare con una specie non crepuscolare (quasi una regola fissa tra i mammiferi), infatti il nostro animale si muove spesso anche di giorno, nonostante paia cacciare preferibilmente le sue prede di notte, quali pica, piccoli roditori, uccelli di piccole dimensioni, non disdegnando però anche prede più grandi quali cervi e stambecchi, ma appunto, proprio in assenza di selvaggina naturale, può divenire per i pastori locali un vero e proprio flagello. Naturalmente, come per tutti gli animali difficili da osservare, le leggende e i miti si sprecano, infatti pare proprio che alcuni avvistamenti compiuti in tempi passati, di questo animale molto elusivo e timido, abbiano dato origine alla fantomatica leggenda dell’uomo delle nevi, altresì conosciuto come Yeti. Ma al sottoscritto e compagni d’avventura, credetemi, il Leopardo delle Nevi, sarebbe più che appagante! Sono trascorse quasi due settimane, fatte di levatacce, montaggio e smontaggio della tenda d’alta quota, di tremendi mal di testa (soprattutto di chi scrive), di camminate interminabile e sfiancanti, oltretutto appesantiti da zaini fotografici, cavalletti e cibarie, e del Leopardo delle Nevi, letteralmente, neanche una traccia. Il quindicesimo giorno della spedizione, credo non verrà mai dimenticato ne da me, ne tantomeno da Stefano e Manuel. Loro entrambi febbricitanti (quasi 38° di temperatura) ed io completamente bloccato da un attacco acuto della mia inseparabile compagna di vita, altresì conosciuta ai più come cervicalgia. In tutta franchezza, non avrei scommesso un’euro sulla nostra permanenza ulteriore in loco, cosi facemmo decidere al caso! Se il giorno seguente, fosse spuntato il sole, da quelle nubi che avevano avvolto la vallata da oltre una settimana, sarebbe stato il segnale che il Leopardo ci chiamava a se, e per cui saremmo rimasti, come previsto altre 2 settimane. Così fu, e a migliorare il tutto, i tiepidi raggi del sole, migliorarono le nostre rispettive condizioni di salute. Il 25 luglio, rimessici quasi completamente in forze, riprendemmo la ricerca del “fantasma delle nevi”. So che mi prenderete per un pazzo o per un visionario, ma io a quel punto ero certo che lo avremmo incontrato, e ne ero talmente convinto, che individuato un pianoro, che pareva perfetto per l’avvistamento, piazzammo con la dovuta cautela, tre trappole fotografiche a sensore di pressione, ovvero, 3 pannelli a switch, che in seguito a pressione, davano l’impulso alle fotocamere piazzate a poca distanza su cavalletti. In poche e semplici parole, se il Leopardo, avesse camminato su uno di questi 3 pannelli avrebbe azionato lo scatto di una fotocamera (una per ogni pannello). Ovviamente il tutto occultato alla vista dell’animale, mimetizzando l’attrezzatura con erba e terriccio. Oltretutto al centro della nostra postazione fotografica, vi era proprio una pozza d’acqua, perfetta per l’eventuale abbeverata dell’animale. A debita distanza, eravamo appostati a monte, in modo tale da poter percepire a tempo debito ogni eventuale avvistamento. Ormai quella postazione, con la tenda piazzata più all’interno, protetta da vento e intemperie da un boschetto, era divenuta in tutto e per tutto la base operativa, nella speranza che nei restanti 13 giorni, tutti questi sforzi sarebbero stati ripagati. Ed evidentemente le segnalazioni dateci dai locali, avevano un fondamento di verità, poiché al quarto giorno di snervanti appostamenti, e dopo aver fotografato qualche stambecco, o alcune immagini del panorama circostante, per la verità non particolarmente affascinante in quanto brullo e roccioso, il nostro meraviglioso “fantasma” apparve! L’emozione fu tanta, ci rendevamo perfettamente conto che da quel momento in poi, saremmo divenuti parte di quello sparuto ed esiguo numero di studiosi o fotografi, che potevano raccontare e dimostrare (tramite foto), di aver osservato in natura il “leggendario” IRBIS. Finalmente potevamo verificare di persona le cose che avevano studiato al riguardo della specie, la sua lunghezza infatti era di circa 135 cm, con una meravigliosa e lunghissima coda di circa 90 . Bellissimo nel suo manto grigio brunastro, con sfumature giallastre in alcune zone del corpo. La caratteristica che saltava maggiormente all’occhio era il ventre di un bianco purissimo, per nulla “sporcato” da alcuna sfumatura, pare sia una caratteristica evolutiva atta a nascondere gli effetti delle ombre. La sua apparizione fu tanto bella, quanto attesa, ma soprattutto fugace, e al suo allontanarsi, eravamo quasi certi che non l’avremmo più rivisto, ma cosi non fu, e infatti dopo 3 giorni di totale assenza, ove nel frattempo era scesa dal cielo una candida neve, riapparve, e se possibile, ancora più bello e fiero, di quanto me lo ricordassi dalla sua prima apparizione ai miei occhi. Nemmeno per un attimo tememmo per la nostra incolumità, infatti è abbastanza risaputo, che questa specie, molto raramente attacca l’ uomo, caratteristica che condivide con altri felidi, quali Lince (Lynx lynx) e Puma (Felis concolor) altre 2 specie che ho avuto modo di osservare e fotografare in Europa e Nord America. Ma a costo di sembrarvi paradossale e addirittura provocatorio, ho sempre pensato, che vista l’ineluttabilità della nostra fine, meglio morire mentre fai qualcosa che ti appaga, piuttosto che in altri tragici o nefasti eventi. Ma bando a questi lugubri pensieri, e tornando al nostro carnivoro, voglio rimarcare una caratteristica che mi ha notevolmente impressionato della specie, ovvero la grande ampiezza di salto che gli ho visto compiere in grandi distanze, e senza tema di smentita posso affermare che l’arco completo del salto può raggiungere anche i 15 metri. Eravamo assai curiosi di scoprire se come accade con la Tigre (Panthera tigris), il Leopardo (Panthera pardis) e il Leone (panthera leo), anche il Leopardo delle Nevi, ruggisse, ma durante le nostre osservazioni, che perdurarono anche nei giorni successivi ai primi 2 avvistamenti, non vi fu il minimo accenno, a tal punto che ci venne spontaneo chiederci, se la specie, utilizzi il ruggito come richiamo o avvertimento in caso di pericolo. Poi, una volta tornati nel nostro paese, sfogliando alcuni libri della mia vastissima collezione naturalistica, potei verificare, che ruggisce, eccome se ruggisce, ma solo quando è fortemente in collera, cosa che mi rese ancor più felice, perché mi diede modo di comprendere che durante i nostri appostamenti, non ci aveva percepito, o perlomeno, se lo avesse fatto, ci aveva perfettamente tollerati. Per un naturalista convinto come il sottoscritto, è fondamentale non lasciare traccia del proprio passaggio una volta terminata una spedizione fotografica, resto dell’idea, che se per ottenere un risultato io debba alterare l’ambiente in cui mi reco, o ancor peggio, danneggiare in seppur minima misura la specie osservata, preferisco non organizzare nemmeno la spedizione. Avrete inteso che non sono Machiavellico, ovvero per me il fine non giustifica i mezzi, se cosi fosse, non me lo potrei mai perdonare. Non dimenticherò mai, quei giorni sulle montagne del Tibet, in fin dei conti quando organizzammo la partenza, ci eravamo basati su informazioni raccolte nel tempo, da vecchi resoconti di spedizioni, ma pieni di errori e male interpretazioni, tanto è vero che ancora oggi, la distribuzione della specie è scarsamente conosciuta, unica cosa certa è che il suo areale va dalle montagne della Russia centro meridionale, il Tibet appunto, l’Himalaya, i monti Altai, fino a raggiungere la Mongolia e la Cina occidentale. Resta il fatto, che la specie è fortemente a rischio d’estinzione, e non se ne conosce il reale numero dei sopravvissuti, è anche questo uno dei motivi che mi hanno spinto a non entrare nel dettaglio, indicando nomi dei luoghi in cui ci siamo recati. Il mondo è pieno di imbecilli con un fucile in mano, che solo per il gusto di poter raccontare di aver ucciso una specie rara, sarebbero pronti a partire con un “arsenale da guerra” alla ricerca della specie. Per cui, dal profondo della mia anima, auguro al Leopardo delle Nevi che ci ha donato la gioia della sua presenza e bellezza, di vivere il resto dei suoi giorni, in totale tranquillità, magari, trovando anche una femmina con cui accoppiarsi per poter perpetrare la specie nelle generazioni a venire. Lasciamo il nostro “Yeti” sulle sue montagne del Tibet. Grazie FANTASMA DELLE NEVI, grazie di averci donato emozioni indescrivibili, e mi scuso con tutti i miei lettori, se non sono stato capace di trasmettervele, ma vi prego di credermi, ho messo tutto me stesso nel tentare di farlo.

ORSO ANDINO
TESTI DI MAX MONTAINA
Quando decisi di accettare l’invito dei nostri corrispondenti di Kamoose, Samantha Perkins e Kenneth Parker di recarmi in Sud America a visitare un’ area naturale poco conosciuta ai più, denominata Torres del Paine in Cile, ero abbastanza scettico sulla buona resa a livello reportagistico, in quanto abituato da sempre a muovermi in ambienti che ho studiato profondamente attraverso libri e documentari, ma soprattutto, dove posso incontrare specie animali a cui ho dedicato tempo per studiarne le caratteristiche e le peculiarità. Ma devo ammetterlo, essendo un grande estimatore della famiglia degli Ursidi, l’idea di poter incontrare e ritrarre l’Orso dagli occhiali (Tremarctos ornatus), solleticava e non poco la mia curiosità zoologica. Questa specie, che viene anche definita come Orso andino, ha posto la sua dimora nelle regioni tropicali dell’America meridionale, ed ha la peculiarità di essere l’unico orso presente in tutto il continente meridionale americano. Giunto in loco, mi resi subito conto che la vegetazione lussureggiante del parco sarebbe stata perfetta per un eventuale incontro con questa specie, che voglio ricordare, è una delle specie più piccole, lungo da 1,5 a 1,8 metri compresa la coda di circa 13/15 cm, ed alto alle spalle dai 70 agli 80 cm. Per cui, nulla a che vedere con l’imponenza dei Grizzly o dei Kodiak dell’Alaska, a cui sono fortunatamente abituato, avendo avuto più e più volte occasione di incontrarli durante i miei innumerevoli viaggi in Canada, Alaska e Nord America più in generale. Infatti un maschio di Orso dagli occhiali completamente sviluppato arriva a pesare fino ad un massimo di 150 kg, che per un urside è veramente poco. Finalmente, il giorno dell’incontro, lo ricordo benissimo, avvenne in una giornata soleggiata dalla temperatura mite intorno ai 23°C, camminavo in un sentiero insieme ai colleghi della troupe fotografica, quando improvvisamente sentii in maniera netta e distinta un mugugno sordo. Cautamente ci nascondemmo dietro ad una grande quercia, confidando nell’incontro che ci aveva spinto in quel luogo. L’attesa fu subito premiata, attraverso le lenti del mio 300 mm, scorsi nitidamente un esemplare maschio, il pelo ispido e di un nero lucido con riflessi marroni scuri, ma la cosa che era impossibile non notare distintamente erano i larghi cerchi beige attorno agli occhi, a cui dobbiamo il nome che gli è stato dato come classificazione zoologica. Sul collo ha grandi macchie bianche che proseguono divenendo striature vere e proprie sul petto. Per correttezza di informazione bisogna ricordare che le macchie della testa e del petto variano da individuo a individuo, ed in alcuni casi sporadici, risultano essere addirittura assenti in alcuni esemplari. Osservando attentamente la specie, si nota come il pelo sia molto meno spesso rispetto a quello di orsi che vivono in climi temperati. Questa specie infatti vive nelle foreste che si spingono dai piedi delle Ande fino alle vette di 3000 metri della Colombia, del Perù, della Bolivia occidentale, del Venezuela e dell’Ecuador. Ma predilige assolutamente di vivere nelle zone forestali, non disdegnando di spingersi nelle radure e nelle pianure, per arrivare a visitare anche le boscaglie a basse altitudini, in prossimità dei villaggi abitati dall’uomo, che non lo teme, anzi lo rispetta come un simbolo di benessere della natura circostante Si muove in maniera goffa e dondolante, annusa gli odori circostanti, munito di un olfatto finissimo (cosa che ci spinge a starcene ben nascosti), ma devo ammettere che possiede un muso molto curioso e assolutamente particolare. Certe mimiche facciali, forse legate proprio alle macchie intorno agli occhi, pare lo rendano “sorridente” e “compiaciuto”, insomma un vero spasso per chi ha avuto la fortuna, come il sottoscritto, di incontrarlo nel suo habitat naturale. Questa specie è tra le meno note nella famiglia degli “orsi”, ma quanto basta per sapere che come la maggior parte dei suoi consimili è un ottimo scalatore, capace di arrampicarsi sulle sommità degli alberi fino ad un’altezza di 30 metri in cerca di cibo, cosa che al contrario non avviene per gli Orsi neri, bruni e grizzly ad esempio, che perdono la capacità di arrampicarsi col finire della giovane età. Nonostante la sua corporatura sia piccola è molto forte ed è tranquillamente in grado di spezzare fusti d’albero dal diametro di oltre 8 cm. Si è portati a pensare, nonostante non vi siano prove documentate, che costruisca il proprio giaciglio per la notte con pezzi di rami spezzati, sulle cime degli alberi. Siamo assolutamente certi che abbia percepito la nostra presenza, ma nonostante ciò, pare non esserne assolutamente turbato, intento nella sua ricerca di foglie, radici e frutti di cui è particolarmente ghiotto. Si racconta di attacchi nei confronti di Vigogne, Cervi e Guanachi, ma sono portato a pensare che siano solo leggende contadine, per tenere lontano i fastidiosi visitatori che si recano in questi luoghi di quiete e meraviglia, senza averne il minimo rispetto. Ma il ritornello che ripeto da sempre, non cambia mai, ovvero, l’uomo dovrà prima o poi capire, che sulla Terra è ospite ne più ne meno delle specie animali e non ne è il padrone assoluto. Ma bando alle divagazioni socio ecologiche e torniamo al nostro orso, il quale come dieta prediletta pone la palma detta “pambili”, vi si arrampica sopra, ne strappa i rami, e una volta ridisceso, all’ombra della foresta ne mangia le foglie in tutta tranquillità. Spacca anche i gambi verdi delle palme giovani per nutrirsi del tenerissimo midollo, ma non disdegna ogni tipo di frutto nel quale possa imbattersi, come la Capparis di cui si sta nutrendo mentre lo osservo e annoto il tutto nel mio taccuino di campo. Durante la mia presenza nel parco, ho avuto occasione di imbattermi in diversi esemplari, compresa una madre con il cucciolo, ed ho notato che a volte, oltre ai cerchi, la specie presenta alcune parti bianche anche sul muso, in alcuni casi, addirittura, gli “occhiali” sono così larghi e le parti bianche cosi estese, che la faccia ci appare come una grande maschera bianca con qualche “spruzzatina” di nero intorno agli occhi. In altri casi, invece, il bianco che circonda gli occhi non è minimamente presente, mostrando così un muso quasi totalmente scuro, con solo piccoli accenni di bianco. Quando una madre svezza un cucciolo, i quali nascono per lo più tra giugno e settembre, sa essere tenera e severa al tempo stesso. Ho potuto annotare atteggiamenti di grande “dolcezza” nei confronti del cucciolo, spaesato dal peregrinare in luoghi a lui sconosciuti, ma anche di “fermezza”, nel sollevarlo bruscamente con il muso, ogni qualvolta il piccolo indugiasse nel voler essere pigro o eccessivamente giocherellone. La gestazione della specie è simile a quella umana, e dura dagli 8 ai 9 mesi. La femmina partorisce sola, senza la presenza di maschi, i quali servono solo per l’accoppiamento e non per lo svezzamento della prole nata. Devo riconoscere che non conoscevo affatto questa specie di urside, essendo abituato alle specie del Grande Nord, per le quali ho una particolare predilezione da sempre, ma lo ammetto, l’incontro, la conoscenza, e il tempo passato ad osservare la vita dell’Orso dagli occhiali scorrere davanti ai miei occhi, mi hanno conquistato! Non amo il Sud America, e in tutta sincerità credevo che questo viaggio mi avrebbe soddisfatto ben poco, ma ora, che ho potuto farvi partecipi di questa mia esperienza a contatto con una specie tanto curiosa quanto poco conosciuta, devo solo dire che ringrazierò sempre i corrispondenti esteri di Kamoose, Samantha e Kenneth, senza la loro insistenza, non avrei mai potuto raccontarvi della vita di questo animale, e soprattutto non potrei affermare, ancora una volta, come se non bastasse, che la natura non tradisce mai. Grazie madre terra, per quanto ci regali ogni giorno della nostra “piccola” ed effimera vita.

AQUILA AMERICANA
TESTI DI MAX MONTAINA
Tutti sanno che l’Aquila di mare dalla testa bianca (Haliaeetus leucocephalus), meglio conosciuta come Aquila calva o americana, è il simbolo degli Stati Uniti d’America, per cui non perderò nemmeno un istante a dissertare di come lo sia divenuta, ma dedicherò maggiore attenzione agli aspetti più esplicitamente zoologici della specie. Dotata di piumaggio bruno scuro, talvolta tendente al nero, possiede una splendida e caratteristica testa bianca. Tra le aquile esistenti al mondo è senza ombra di dubbio la più grande, pensate che può raggiungere 110 cm di lunghezza e possedere un apertura alare di quasi 3 metri. Addirittura, la sottospecie che ho potuto osservare e ritrarre in Alaska e Canada è ancora più grande di dimensioni, con una curiosa peculiarità, rara nel mondo animale, nell’ambito della stessa specie, ovvero la sottospecie del Canada e Alaska presenta gli esemplari di sesso maschile più grandi delle femmine, mentre per la specie originaria diffusa negli Stati Uniti avviene l’esatto contrario, con la femmina più grande. E’ un’ esperienza indescrivibile osservarla spiccare il volo e librarsi come una vera “regina” sopra i cieli contornati da immense foreste di conifere. Ricordo che un giorno, nel parco nazionale di Yellowstone, ero talmente “preso” dal fotografarla, che senza rendermene conto mi ero steso sull’asfalto della strada (unica) che porta dall’entrata sud a ovest del parco. Dona un senso di libertà, di maestosità senza pari e ti fa percepire la piccolezza di noi esseri umani. E’ proprio durante questi voli di perlustrazione, che va in cerca delle diverse prede di cui si nutre: salmoni, trote, piccoli di caribù, cuccioli di lupo, lepri, carogne e addirittura serpenti. In particolare, come “pescatrice” rivaleggia con il Falco pescatore, e vi assicuro che assistere all’arpionamento del pesce in planata sul pelo dell’acqua dell’Aquila americana è uno degli spettacoli più affascinanti a cui un naturalista possa assistere. Questo animale, fa parte della schiera delle specie che hanno reso il Nord America la meta più ambita per i fotografi naturalisti di tutto il mondo, ma soprattutto, essendo molto suscettibile agli equilibri ambientali è un indicatore ecologico di prim’ordine, in quanto difficilmente troveremo coppie di aquile americane nidificare in zone ad alto inquinamento, sia atmosferico che dei bacini idrici. Verso la tarda primavera, cova da 2 a 4 grosse uova (possono pesare fino a 750 grammi), dalle quali usciranno pulcini grandi come un pettirosso e totalmente bianchi. Nelle covate superiori a 3 unità, generalmente il più debole muore. Vengono nutriti principalmente con pesci e lucertole, per farli crescere forti e sani e prepararli ai primi voli che avverranno dal terzo mese di vita. Come dicevo, questo rapace è presente esclusivamente negli Stati Uniti con circa 80.000 esemplari, ma una popolazione di circa 15.000-20.000 esemplari è ben rappresentata anche in Canada, dove sono presenti gli areali più “sicuri” in cui la specie può vivere senza rischio di essere cacciata, grazie alla vasta area di parchi nazionali diffusi su tutto il territorio canadese, tra tutti cito i principali, quali Banff e Jasper in Canada appunto e Denali in Alaska. Nonostante sia il simbolo di un Paese che si vanta di essere all’avanguardia in tutto, è stata a lungo cacciata, per la stupida ed inutile mania di volerne fare un trofeo per abbellire le sale o i locali di tutta l’America. Nel 1920, la specie arrivò a collassare e si raggiunse la soglia del non ritorno, ovvero il rischio di estinzione definitivo. Così il governo del Paese prese atto del triste epilogo che correva il proprio simbolo e pose il divieto di cacciarla, punendo i contravventori con ammende salatissime e in alcuni casi anche con il carcere. Personalmente, faccio molta fatica a trovare utilità nella caccia per scopi puramente ludici. Le specie animali si sono evolute e popolano la terra per un ben preciso motivo, e nessun uomo si può arrogare il diritto di farle scomparire solo per il proprio stupido piacere. Che poi esseri umani trovino piacere nell’uccidere esseri viventi, lo trovo oltre che macabro anche altamente squallido. Ma fortunatamente, esistono le persone di buon senso che hanno posto a tutela luoghi incantevoli della Terra, dove le specie come l’Aquila americana possano trovare sicura dimora e perpetrare la specie negli anni a venire. L’Aquila americana racchiude altri significati oltre il valore scientifico intrinseco della specie stessa, infatti si erge a simbolo di un Paese che si vanta di essere libero, ma come sempre, nelle cose umane la contraddizione regna sovrana. Quando vedo un’aquila spiccare il volo dalla cima di un albero, vedo spiegare le ali nel vuoto, e poi la vedo volteggiare senza il minimo battito sfruttando le correnti d’aria, mi ricordo che la vita è il bene più prezioso che ci sia stato donato, nessuno al mondo ha il diritto di toglierla, soprattutto utilizzando squallide motivazioni. La natura è il patrimonio più grande che possiede l’umanità intera, ci è stato fatto il dono di poterne essere partecipi, ma non è di nostra proprietà, e il giorno in cui “madre natura” ci sfratterà, ce ne renderemo tristemente conto. Per quanto mi riguarda io debbo molto a questo animale, mi ha donato emozioni indimenticabili, mi ha fatto comprendere il vero significato della parola “libertà” e mi auguro che tutti i giovani lettori di Kamoose recepiscano il messaggio contro la caccia che ho lanciato, ma non perchè sono un naturalista, ma più semplicemente perchè amo la vita ed ho rispetto di tutte le forme viventi che l’evoluzione nel corso di millenni ha voluto premiare selezionando chi doveva sopravvivere e chi no. L’uomo non è un selettore, l’uomo è un prevaricatore, e se la terra sta morendo, credo non vi siano dubbi di chi ne sia il colpevole unico e ingiustificabile.

SCOIATTOLO ROSSO
TESTI DI MAX MONTAINA
Le leggende e i miti legati al mondo incantato della foresta sono popolati di fate, elfi, gnomi e folletti. Probabilmente i primi tre sono destinati a rimanere circondati da un alone di mistero, per i folletti invece, l’enigma può essere svelato. Quando si parlava di questi abitanti del bosco, infatti, quasi sicuramente ci si riferiva allo scoiattolo. Dotato di una agilità invidiabile, lo scoiattolo sale e riscende i tronchi degli alberi con grande velocità, salta da un ramo all’altro producendosi in veri e propri voli a caduta libera. Usando come unico freno la sua stupenda e foltissima coda. Lo scoiattolo europeo si presenta con almeno due differenti colorazioni, denominate anche fasi, quella nera e quella marrone, con numerose gradazioni intermedie. Possiede zampe posteriori molto sviluppate, orecchie piccole, ventre prevalentemente biancastro, e occhi grandi, quegli occhi che hanno permesso a Konrad Lorenz di descrivere la tematica dei tratti infantili che suscitano tenerezza e simpatia in tutti coloro che si soffermano a guardarli. Questo roditore è presente in vari tipi di bosco, si insedia preferibilmente nei parchi protetti molto estesi, ma non disdegna di frequentare anche giardini pubblici. Ama intrecciare i suoi nidi caratterizzati da uno strato esterno di ramoscelli e uno più interno morbido e soffice sulle chiome degli alberi, spesso in vicinanza del tronco o di una grossa biforcazione. Si serve anche delle cavità degli alberi. All’interno di questi nidi partorisce i suoi piccoli e vi si rifugia. Non è facile scorgere la sua presenza, cercando di ritrovarne le impronte sul terreno; infatti vivendo in boschi di conifere e di latifoglie, trascorre la sua esistenza tra le fronde boscose. Gli arti del nostro sciuride sono conformati per arrampicarsi agilmente sui tronchi e rami, e le lunghe, sottili dita di cui è munito, possiedono alla loro estremità artigli altrettanto lunghi e acuminati. La disposizione delle sue impronte in movimento è inconfondibile, ha la stessa andatura di lepri e conigli, ovvero avanza a balzi cosi che possano essere scorte nelle neve oppure sui sentieri fangosi. Si nutre fondamentalmente di semi, granaglie, frutti, bacche, cortecce d’alberi, funghi,insetti, uova e nidiacei. Ghiottissimo di pinoli che ricava dalle pigne che stacca dal ramo afferrandole con le zampe anteriori. La sua considerevole dentatura gli permette di staccare facilmente le prime squame e proseguire oltre, anche se incontra resistenza. Al termine del pasto, getta le pigne a terra, disseminandole su una vasta superficie. Anche le nocciole rappresentano un cibo a lui molto appetitoso, le apre in due scavando con i denti una sottile fessura fino a quando non cede. Parlando dello scoiattolo, appartenente all’ordine dei roditori non possiamo dimenticare che in luogo dei canini ha un largo vuoto, mentre il labbro superiore è diviso verticalmente formando il cosiddetto labbro leporino. A seconda della stagione lo scoiattolo cambia gli alberi da cui ricava il suo cibo preferito. Nella stagione in cui le pigne sono cariche di semi, cerca il nutrimento sulle cime degli abeti rossi; in primavera invece si orienta sulle gemme delle latifoglie, specificamente di querce. E’ stata anche osservata una tendenziale attitudine predatoria nei confronti dei nidi di uccelli, di cui saccheggia uova e persino uccelli implumi. Quando la neve ricopre copiosa i suoi territori abituali giunge l’epoca degli amori. Dopo aver effettuato una veloce schermaglia, anche cruenta, con il maschio rivale, il vincitore tenta di guadagnare il favore della femmina con un cerimoniale altamente ritualizzato. Inizia a “sfrecciare” di ramo in ramo, emettendo schiocchi gutturali e agitando la coda come il pennone di una nave. La femmina, in un primo tempo ritrosa, lo rincorre soffiandoci contro, a guisa di minaccia. Il maschio a questo punto sembra non darle peso e persistendo nelle sue avances porta in questo modo la femmina ad abbassare le sue “ barriere difensive! Cosi che l’avversione per il fastidioso intruso risulta notevolmente attenuato. In questo momenti iniziano le “danze” che culminano in breve con l’accoppiamento. L’unione fra i due sessi è a carattere eminentemente riproduttivo in quanto una volta terminati gli accoppiamenti, la femmina allontana il maschio dal suo territorio. E’ notoria la grande abilità “ingegneristica” che tutti riconoscono al Castoro ( castor fiber), ebbene, non di meno la femmina dello scoiattolo è un abilissimo architetto. Con rametti qua e là, costruisce un nido di forma tondeggiante a non più di 10-15 metri di altezza. Il materiale per il nido, solitamente costituito da piume, fieno, o fibre vegetali in genere, viene assemblato con le zampe, e quindi adagiato nel nido tenendolo in bocca. Dopo circa 38 giorni di gestazione, vengono alla luce i piccoli, solitamente da 2 a 5. Dopo alcune settimane gli scoiattoli, ormai cresciuti, abbandonano il nido ed è in questo periodo, che coccolati dai tiepidi e vivificanti raggi del sole, iniziano i loro giochi doppiamente utili ai fini della loro vita adulta. Gli scoiattoli appartengono alla famiglia degli Sciuridi, la quale comprende oltre 250 specie di roditori. Tra i differenti generi che fanno capo a questa famiglia, quello più noto è senza dubbio il genere Sciurus, composto da circa 28 specie di scoiattolo, diffuse in Europa, Asia e America. Lo scoiattolo europeo (Sciurus vulgaris) si diffonde in tutte le regioni montagnose dell’Eurasia, ad eccezione del Caucaso, Siria, Arabia, Persia e Asia Minore, dove si è invece sviluppata la specie Sciurus tenes. Vi è da considerare inoltre che lo Sciurus vulgaris è totalmente assente in Sicilia, Sardegna, Corsica e Creta. La sua attività è esclusivamente diurna, e si manifesta nelle prime ore del mattino enel tardo pomeriggio. Nel periodo invernale reduce da innumerevoli peregrinazioni, e quando il freddo si fa praticamente pungente, non abbandona mai il caldo giaciglio, sebbene non cada in letargo. In Gran Bretagna sono oggi presenti con pelliccia grigia tendente al giallo sul dorso. Questi esemplari appartengono alla specie Sciurus carolinensis, originaria del Nord America, dove risiede attualmente una delle specie più diffuse. Nel nostro Paese riconosciamo tre sottospecie di vulgaris, identificabili dal diverso mantello ed equamente suddivise lungo la penisola. Sulle Alpi e nel nord dell’Appennino troveremo lo Sciurus vulgaris con due fasi, una rossiccia e una scura. Nell’Italia centrosettentrionale è presente lo Sciurus Vulgaris italicus, dal mantello più slavato rispetto al precedente. Infine in Italia meridionale abbiamo lo Sciurus vulgaris meridionalis, di manto scuro, tendente al nero, con il ventre totalmente bianco. Come abbiamo visto quindi, durante l’anno si verificano due mute: in primavera il pelo si rimuove procedendo dal capo verso la coda mentre in autunno si verifica il procedimento inverso, partendo dalla base delle coda. La vita frenetica e spensierata di questo splendido animale, scorre nell’arco di 8 – 12 anni, ma nonostante sembrino pochi, sono sufficienti per allietare tutti coloro che hanno la fortuna di incontrarli durante le loro scorribande in cerca di cibo, salendo e scendendo dalle cime degli alberi. Onestamente, non saprei immaginare la mia vita di naturalista senza la presenza di questi splendidi “giocolieri”, per cui corri scoiattolo, corri, la tua vitalità ci colma di felicità, e fino a che i boschi saranno abitati dalla tua presenza il mondo sarà certamente più bello e ricco.

LONTRA EUROPEA
TESTI DI MAX MONTAINA
Quella della lontra potrebbe essere definita una delle tante storie di ordinaria estinzione, come quelle che in Italia hanno visto protagonisti la Foca monaca, l’Orso bruno, il Lupo e il Cervo sardo. Ma, mentre nei confronti degli altri mammiferi a rischio di estinzione già da tempo si è instaurato, anche da parte del pubblico medio, un sentimento di viva simpatia, sollecitato dagli interventi di studiosi e naturalisti che hanno divulgato modi di vita, comportamenti ed esigenze dei loro protetti, per questo mustelide timido, elusivo, vivace e simpaticissimo non è stato così. La Lontra infatti, in Italia, è un animale ancora poco conosciuto, il più delle volte confuso con il castoro (o nutria), ed è perciò ovvio che non sia riuscito a convogliare intorno a sé l’attenzione, l’interesse e, diciamolo pure, l’affetto che merita, nonostante gli sforzi e l’impegno del “Gruppo Lontra Italia”, una filiazione dell’Otter Group dell’ U.I.C.N. (Unione Internazionale per la conservazione della Natura) che dal 1982 opera nell’intento di sensibilizzare l’opinione pubblica italiana al problema della salvaguardia di questo piccolo carnivoro. Studiare la lontra per amarla e proteggerla adeguatamente è perciò il primo obbiettivo da raggiungere. Ma occorre far presto, perché la situazione della specie, e del suo ambiente naturale, è tutt’altro che rosea: rispetto ad un tempo, quando quella delle lontre era una presenza costante un po’dovunque negli ambienti palustri, oggi il futuro delle rade e sparute popolazioni che ancora sopravvivono in poche aree protette (il Parco Nazionale d’Abruzzo, le Oasi W.W.F di Bolgheri, Burano, Ninfa, Marano Lagunare, Cesine e Serre Persano), si presenta carico di rischi allarmanti, come dimostra il recente, rapido e silenzioso declino numerico, che imprevedibili eventi negativi potrebbero far precipitare irrimediabilmente verso il punto del non ritorno. La lontra appartiene al gruppo dei Mustelidi, i più primitivi carnivori viventi, e ad una delle cinque sottofamiglie in cui essi vengono suddivise, quella dei Lutrini, costituita da quattro generi con specie dalle abitudini acquatiche o semiacquatiche. Fra esse quella della Lontra Europea (Lutra lutra) è la specie a più ampia distribuzione, sebbene essa, minacciata dal crescente inquinamento dei corsi d’ acqua, vada rapidamente scomparendo da tutta l’area dell’ Europea industrializzata. La Lontra europea è un mammifero di media taglia, dal corpo allungato dalla forma slanciata e flessuosa, con testa depressa, corte zampe munite di unghie e provviste di membrana natatoria, coda lunga e sottile a sezione tondeggiante, con base appiattita molto spessa che può fungere da timone direzionale subacqueo. Lunga fino a 1,50 metri e alta fino a 40 cm, la lontra può raggiungere, negli esemplari maschi, un peso di 12, 14 chilogrammi. La pelliccia, straordinariamente fitta e lucida, consiste in due tipi distinti di pelo: quelli di borra, densissimi e lanuginosi, che costituiscono lo strato di base, quelli di giara, più lunghi e ispidi, che formano lo strato visibile esternamente. Questa particolare conformazione della pelliccia è finalizzata, come tutta la struttura generale dell’animale, ad un suo perfetto adattamento alla vita subacquea: fungendo infatti da isolante termico idrorepellente impedisce che le basse – o bassissime- temperature delle acque si trasmettano al corpo dell’animale, con grave rischio per la sua sopravvivenza. Il colore della pelliccia può variare dal bruno chiaro al nocciola beige in tutte le sfumature intermedie, e si presenta uniforme su tutto il corpo, essendo la gola, le guance e il ventre di tonalità generalmente più chiare e delicate. Gli occhi, dotati di un particolare meccanismo di aggiustamento del cristallino, funzionale ad una migliore visione in acqua, rispondono anch’essi – come del resto la forma stessa del corpo, affusolata ed estremamente idrodinamica – alle esigenze della vita acquatica, sebbene la lontra si muova con rapidità e grazia fluente anche sulla terra. Il dimorfismo sessuale fra maschi e femmine non è limitato alla taglia, ma investe la stessa struttura ossea craniale, con inevitabili conseguenze sulla fisionomia facciale, che nei maschi adulti presenta tratti più massicci e marcati, caratterizzati da muso largo e tozzo e da orecchie di maggiore ampiezza, mentre le femmine rivelano lineamenti più morbidi e affusolati. Avendo abitudini acquatiche, la lontra predilige gli argini fluviali o lacustri ricchi di vegetazione, né disdegna le coste marine, come nelle fredde isole Shetland, dove sopravvive una delle ultime e più stabili colonie di lontre europee. Animale curioso, vivacissimo, la lontra è naturalmente portata alla continua esplorazione dell’ambiente in cui vive, anche per ovvie ragioni di sicurezza, essendo i Mustelidi animali estremamente prudenti e circospetti, e ad una frenetica e complessa attività locomotoria. Si va dal trotto, utilizzato per coprire distanze relativamente lunghe ma sicure, al galoppo a rapidi balzi, associato solitamente a condizioni di insicurezza o di vero e proprio allarme, su tragitti scoperti, alle frequenti immersioni, con posizioni e tecniche di nuoto assai diversificate ed armoniose, o evoluzioni subacquee continue ed affascinanti, alle varie e complesse attività ludiche a terra o nell’elemento liquido ( come le caratteristiche scivolate, considerate il gioco più amato dalle lontre), sebbene più che a veri e propri giochi esse vadano ricondotte ad attività finalizzate a scopi ben precisi: abituarsi a guadagnare rapidamente la sicurezza dell’acqua in caso di pericolo, allenarsi all’attività predatoria, sperimentare nuove tecniche di caccia. Per la lontra l’attività predazionale subacquea è fondamentale, dato che la sua dieta è costituita in prevalenza da pesci, con predilezione per le specie di fondale, per quelle piuttosto lente nei movimenti e per le anguille; occasionalmente dai crostacei, anfibi e rettili (vere e proprie “risorse tampone” facili da catturare ed importanti soprattutto in certi periodi dell’anno, quando essi raggiungono forti concentrazioni) e solo più raramente da uccelli acquatici (gallinelle d’acqua o altri Rallidi ed Anatidi) e da piccoli mammiferi (ratti, arvicole ma anche conigli selvatici addirittura altri mustelidi). La lontra insomma è un superpredatore che rivela un comportamento marcatamente opportunistico a seconda della disponibilità offerta dalle diverse prede, e come tale essa riveste un ruolo di primaria importanza nella conservazione degli equilibri fra gli organismi animali presenti negli ecosistemi acquatici. Al successo dell’attività predatoria in acqua contribuiscono soprattutto la vista e il tatto, il cui strumento specifico è costituito dalle vibrisse, robusti baffi alloggiati in grossi bulbi piliferi intorno alle labbra, le quali, creando un potente schermo sensitivo intorno al muso della lontra, le consentono di individuare prede potenziali anche in acque molto torbide. Nell’attività predazionale in superficie hanno invece molta importanza l’udito e l’olfatto, i due sensi più utilizzati nella comunicazione interspecifica, per captare i diversi messaggi d’allarme, di limitazione territoriale, di disponibilità sessuale ecc. La lontra utilizza anche la comunicazione vocale, sebbene in modo assai limitato, negli esemplari adulti: può infatti emettere 5, 6 suoni con funzioni diverse, ed il numero delle vocalizzazioni tende a farsi maggiore nelle lontre che dimostrano maggiori tendenze gregarie. Non è comunque il caso della lontra europea, fra le specie meno sociali, e perciò meno disponibili a produrre suoni più o meno articolati. Nel corso della sua vita la lontra utilizza diversi tipi di vocalizzazioni: dai gorgoglianti cinguettii emessi quando è un cucciolo affamato, nei primi giorni della sua esistenza, ai fischi e squittii di timbro via via più elevato, al fischio sonoro, della durata di un secondo, che il cucciolo è in grado di emettere intorno ai due mesi di vita, e che funge da “voce di contatto”, allo scopo di segnalare alla madre la sua posizione durante le escursioni predatorie notturne, alle “voci di allarme”, alle “voci di minaccia”, che partendo da un querulo chiacchiericcio, spesso reso più convincente dalla mimica facciale, crescono in frequenza e in volume fino a trasformarsi in una sorta di strillo gutturale che precede l’attacco vero e proprio. Tuttavia, la maggior parte delle informazioni è costituita per le lontre dal messaggio olfattivo, dato che il principale strumento di comunicazione territoriale sono gli escrementi e le secrezioni delle ghiandole perianali, funzione e significato delle quali restano ancora in buona misura oscuri e misteriosi. Ad essi debbono essere comunque ricondotti anche i segnali della ricettività sessuale delle femmine, ma è probabile che per loro tramite vengano comunicati altri messaggi olfattivi, a noi per ora sconosciuti. Durante l’estro, che dura 14 giorni, le femmine di lontra risultano particolarmente eccitate, aggressive e loquaci, anzi i ruoli tradizionali del corteggiamento sembrano invertiti e sono le femmine a guidare la febbrile attività amorosa, incoraggiando i maschi e coinvolgendoli in giochi frenetici in terra e in acqua. Esaurito però il breve periodo dell’accoppiamento, i due futuri genitori riprendono a condurre esistenze autonome e separate: il maschio controllando il suo ampio territorio, che può sovrapporsi a quello utilizzato da una o più femmine con piccoli, e la femmina preparando la tana per la futura prole ed incrementando la sua abituale attività di predazione. Le lontre utilizzano due tipi di tane: tane temporanee e tane permanenti, adatte all’allevamento dei piccoli. Le tane temporanee abbondano lungo gli argini fluviali e sulle scogliere in prossimità del litorale marino; destinate alle soste nel corso degli spostamenti, possono essere utilizzate da qualunque lontra ed occasionalmente anche per i parti. Le tane permanenti sono invece generalmente situate in cavità sotterranee, collegate all’acqua e spesso dotate di camini di aerazione. Va sottolineato, tuttavia, proporre una precisa tipologia delle camere in cui le femmine allevano le loro nidiate dopo il parto, è tutt’altro che agevole, dato che la struttura reale delle tane è più delle volte condizionata da fattori contingenti, anche perché la lontra europea non ama scavare e si limita, solitamente, ad adattare cavità preesistenti, tappezzandole di materiali soffici e abbondanti. Una cucciolata di piccole lontre può essere costituita da 1 a 6 nati, ma la media pare aggirarsi sui 2, 3 cuccioli: alla nascita misurano circa 12 cm di lunghezza, coda compresa, e sono ricoperti di una morbida e vellutata lanugine color grigio chiaro; naso, labbra e polpastrelli plantari sono di un roseo delicato, così come le palpebre serrate sugli occhietti, chiusi fino a 30, 35 giorni dopo il parto. Inizialmente le poppate si susseguono ogni tre, quattro ore, poi pian piano gli intervalli fra un pasto e l’altro si allungano ed anche il pelo viene mutando colore e trasformandosi in un morbido nocciola mielato. A circa sette settimane di vita i cuccioli sono già in grado di assumere i cibi solidi che la madre porta loro dopo le sue spedizioni notturne di caccia; verso i due mesi cominciano ad uscire dalla tana; a tre mesi vengono i contatti con l’acqua, in coincidenza con lo sviluppo della pelliccia impermeabile, che funge da giubbetto salvagente in attesa che le piccole lontre diventino provette nuotatrici; intorno ai sei mesi i cuccioli sono ormai in grado di predare autonomamente pesci di piccola taglia: la caccia ed una frenetica attività ludica, finalizzata a potenziare al massimo l’efficienza predatoria, assorbono la maggior parte del loro tempo. A nove mesi dalla nascita l’accrescimento dei piccoli è tale che risulta difficili distinguerli dagli adulti: la coesione del gruppetto familiare comincia ad entrare in crisi ed intorno all’anno di vita, in perfetta sintonia con l’aumentato fabbisogno dei cuccioli di esplorare l’ambiente circostante, e con la loro innata vocazione al nomadismo e alla ricerca di un proprio territorio, essi vengono abbandonati dalla madre, che riprende le sue relazioni col maschio residente, e si rende disponibile a dar vita ad un nuovo ciclo riproduttivo. La storia della lontra europea e del suo silenzioso declino è, al tempo stesso, contraddittoria ed enigmatica. Contraddittoria perché, come tutte le specie su cui incombe il rischio d’estinzione, la lontra è stata per secoli vittima indifesa di tutti i mali che l’uomo, direttamente o indirettamente, le ha inflitto, per diventare negli ultimi anni, grazie alla diffusa accelerazione della presa di coscienza degli abusi perpetuati nei confronti della natura –e alla parallela volontà di porvi urgentemente rimedio–oggetto di sorprendenti attenzioni, per tentarne estremo salvataggio. Enigmatica, perché da sempre la lontra ha destato scarsi e sporadici interessi ( se non come oggetto di ingiustificata persecuzione, vuoi per punirla dei «misfatti» di cui la si riteneva colpevole, vuoi per privarla della sua calda e pregiata pelliccia ) al punto che tanto la distribuzione quanto l’entità numerica di questo piccolo carnivoro sono sempre state caratterizzate dall’estreme imprecisione e genericità dei dati disponibili. Così, in silenzio, lentamente ma inesorabilmente la lontra europea ha cominciato a morire e senza far notizia ha finito con lo scomparire dalla maggior parte degli ambienti lacustri e dai bacini fluviali dell’ Europa occidentale. Il declino, drammatico ed impressionante nella sua rapidità, va collegato ad un insieme assai complesso di cause e concause. La causa più insidiosa e temibile, più che la pressione venatoria, determinante invece per la rarefazione di altre specie, è certamente quella legata alle gravi alterazioni subite nell’habitat della lontra, in seguito all’introduzione di alcuni pesticidi in agricoltura, all’utilizzo di cloroderivati (che passando inalterati attraverso le catene alimentari finiscono con l’accumularsi in concentrazioni elevate soprattutto nei predatori )e di insetticidi dagli effetti particolarmente disastrosi sulla riproduzione dei mammiferi acquatici. Aggiungiamo l’inquinamento delle reti idrografiche interne e quello da idrocarburi delle acque di mare, ed avremo un’idea complessiva della gravità degli effetti cumulativi che si sono abbattuti, come una violenta mazzata, suggi ambienti prediletti dalla lontra. In più, non dobbiamo dimenticare l’importanza del disturbo antropico, cui un animale timido ed elusivo come questo mustelide risulta particolarmente sensibile, disturbo accresciutosi violentemente con l’intensificarsi delle attività umane dopo il boom industriale del secondo dopoguerra: costruzione di nuovi centri urbani, di arterie di traffico veloce, di nuovi tracciati viarii e autostradali, per non parlare delle opere di canalizzazione dei corsi d’acqua e relativa desertificazione delle sponde. Infine, la caccia e la pesca sportive, che oltre a tradursi in una diretta competizione nell’attività predazionale della lontra, costituiscono un fattore costante di disturbo e, non di rado, di mortalità accidentale, come nel caso della pesca all’anguilla con nasse, in cui le lontre trovano frequentemente la morte per annegamento. In Italia la situazione non è migliore rispetto al resto d’Europa, anzi, fino al 1971 le disposizioni di legge in materia di attività venatoria includevano la lontra nella lista dei nocivi da abbattere con ogni mezzo su tutto il territorio nazionale, e solo nel 1978, quando è ormai sull’orlo dell’estinzione, questo piccolo mammifero viene escluso dalla lista delle specie cacciabili. Anche oggi, nonostante le attuali misure di protezione, non esistono rigidi vincoli di tutela per la maggior parte delle ultime, importantissime aree in cui la lontra sopravvive. Individuare e proteggere adeguatamente questi ambienti è il primo passo per concretizzare la volontà di protezione delle sparute, superstiti popolazioni di lontre, come è già stato fatto nei paesi all’avanguardia d’Europa, quali l’Inghilterra, (dove fin dal 1972 è sorto il primo gruppo di tutela di questo mustelide, l’ Otter Trust), la Svizzera, la Francia e la Germania, che vanta il primo zoo didattico europeo dedicato alla lontra, l’ Otter Zentrum di Hanchensbuttel. Anche in Italia possiamo ancora fare qualcosa: l’ultima pagina della storia della lontra non è stata scritta e sta solo a noi che non sia la storia di una morte annunciata.